martedì 27 gennaio 2015

La memoria della guerra. Intervista a Valter Peirolo, mio nonno

Valter  Peirolo
Il racconto del periodo di progionia in vari campi di concentramento nazisti vissuto da Valter Peirolo (4 gennaio 1929 - 15 ottobre 2013), raccolto da Viviviana Babette Agnès, la nipote.
“La richiesta di spiegarti come si viveva cinquant’anni fa, mi mette a disagio perché dovrò descriverti avvenimenti così brutali che è difficile possano essere compresi e creduti, ma ora che alla televisione vedi le brutture di cui è capace l’umanità nei paesi in guerra, ti renderei conto che sono verosimili.
Eravamo stati coinvolti nel giro di trent’anni in due guerre mondiali, più altre in Etiopia, Eritrea, Somalia, Albania, Spagna.
L’ultima guerra mondiale, che stava per concludersi nel 1945, mi ha visto protagonista di alcuni eventi.
Ti descriverò perciò solo come ho vissuto quest’ epoca.
Avevo quattordici anni, frequentavo la quarta Ginnasio a Susa.
C’era tanta miseria e usavamo le tessere per i generi alimentari. Non c’erano mezzi di trasporto, perciò dovevo andare a scuola in bicicletta ed ero fortunato quando non foravo le gomme, perché a quei tempi per risparmiare si usavano le scarpe chiodate e spesso si trovavano dei chiodi per le strade: se si foravano non rimaneva altro che fare la strada a piedi ed erano 8 Km.

In casa mia non si riteneva giusta l’alleanza con i tedeschi, perché essi avevano ucciso mio nonno nella prima guerra mondiale; quando poi ho visto mia madre malmenata da un militare tedesco, ho compreso che avrei dovuto dedicare tutte le mie energie a combattere questi prepotenti.
Alcuni dei miei cugini più anziani, erano saliti in montagna per combattere questi oppressori.
Io passavo le mie giornate a cercare di raccogliere le armi e le munizioni che poi portavo con grande rischio ai miei cugini, in special modo a Giordano Velino che è stato uno dei primi partigiani ad essere ucciso dai tedeschi.
Evidentemente non avevo molto tempo per studiare e fare i compiti, ma avevo due carissimi amici che, sapendo della mia attività, me li facevano copiare.
Ero riuscito, comunque, ad essere rimandato solo in matematica.
Alla fine della scuola, nel Giugno 1944, sono stato catturato dai tedeschi, in occasione dell’attacco partigiano a Bussoleno.
Sono stato portato nella caserma, ora sede della comunità montana, e interrogato, in quanto volevano sapere dove erano nascosti i partigiani. Mi avevano mostrato una carta topografica molto dettagliata di Bussoleno e dintorni.
Il mio inquisitore dapprima mi aveva chiesto se volevo fumare una sigaretta, al ché avevo risposto di sì.
Ricordo molto bene che le uniche parole che avevo detto erano che andavo a scuola a Susa e che il mio tempo era dedicato allo studio, perciò non mi risultava che in vallata ci fossero dei banditi, come li chiamava lui.
Proseguendo nell’interrogatorio si spazientì, forse aveva capito che sapevo molte più cose di quante gliene dicessi e cominciò con le minacce e le percosse. Mi spense nelle mani la sigaretta che mi aveva offerto e la sua, quindi mi portò a calci e pugni sulla tromba delle scale del solaio della caserma e minacciò di buttarmi nel vuoto se non avessi parlato. Per mia fortuna mi fece ruzzolare a calci giù per le scale,e cessò di picchiarmi solo per raccogliere la penna stilografica col pennino d’ oro che avevo ricevuto in regalo dai miei genitori alla fine della scuola, e che nel trambusto mi era caduta dal taschino della giacca.
Il giorno dopo tornai ad essere interrogato alla presenza di Ufficiali delle SS tedesche. Si ripresentò il mio “aguzzino”, anche se indossava una divisa mimetica tedesca era sicuramente un italiano; mi chiese nuovamente di collaborare perché dovevo essere orgoglioso di essere un bravo Balilla.
Alle mie solite risposte e al rifiuto di fare il saluto romano e di dire HEIL HITLER, si scatenò con il cinturone.
Tra l’altro la fibbia mi colpì la mano destra con la quale cercavo di ripararmi; a distanza di cinquant’ anni puoi vedere i segni di quella violenza e le cicatrici delle bruciature. Sulle fibbia c’era scritto “Gott mit uns” (Dio con noi). Fortunatamente Dio non era un loro alleato.
Penso possiamo tralasciare i particolari sulla composizione della tradotta che doveva portarci in Germania. A Torino avevano caricato anche i Resistenti delle Nuove e di Via Asti.
Nessuno conosceva la destinazione, tanto che solo alla fine della guerra ho saputo della sosta nella stazione di Mauthausen.
Fortuna ha voluto che una richiesta di operai per una fabbrica della Daimler Benz a Gaggenau, ci salvò da una sorte peggiore. Prima di arrivare a destinazione erano comunque trascorsi sette giorni di viaggio in un carro bestiame, rinchiusi in quaranta; come cibo avevo un po’ di pane che mi era stato dato da una donna nella stazione di Sant’Antonino, ma la mancanza di bevande e di igiene in quelle afose giornate di Luglio, avevano trasformato quel viaggio in un’esperienza allucinante.
E’ venuto il momento di farti vedere la fotografia che sono riuscito a sottrarre, tra mille peripezie, agli archivi tedeschi, nel corso di un bombardamento.
Come puoi vedere, davanti alla macchina fotografica mi ero accuratamente pettinato e, poiché non avevo altri indumenti che un paio di calzoncini corti, una canottiera e una giacca, con un po’ di civetteria, mi ero messo attorno al collo le strisce di una coperta,per apparire più presentabile.
Poco dopo avevo cambiato aspetto, mi avevano rasato a zero, tolto tutto quanto avevo; in compenso avevo ricevuto una gamella, un cucchiaio, un paio di zoccoli pesanti e una divisa verde sulla quale veniva stampigliato con vernice una J in circolo, sul petto, sulla schiena e sui pantaloni. Ero diventato un uomo, perché oltre ad aver indossato il mio primo paio di pantaloni lunghi, quando ho imparato ad interpretare quelle sigle ho capito che esse contrassegnavano i sovversivi pericolosi e, ai civili tedeschi, era vietato (verboten) rivolgerci la parola.
La vita dei Lager è stata diffusamente descritta, ti racconterò perciò alcuni fatti che mi hanno coinvolto personalmente.
Erano passati pochi giorni di prigionia, quando per mia curiosità avevo avuto furtivamente contatti con un prigioniero militare russo. L’avevo aiutato, con quelle poche cose che ero riuscito a salvare, a crearsi un aspetto civile, in quanto voleva tentare la fuga per tornare a combattere contro l’oppressore; in particolare ricordo,cosa che aveva apprezzato molto, di avergli dato un pettine, che si può vedere ancora nella fotografia nel taschino della giacca. Non so a cosa sarebbe potuto servirgli, in quanto eravamo entrambi rapati azero e il mio amico russo aveva cortissimi riccioli biondi.
Avevamo difficoltà a comprenderci, perché non avevo ancora appreso il comune linguaggio dei deportati, ma con un po’di francese, mi aveva fatto capire che sarebbe tornato a liberarmi. Ci eravamo lasciati con una stretta di mano e un abbraccio, dopo aver disegnato, in segno d’intesa, su un braccio una falce e martello, con la matita copiativa. Mi aveva regalato una pagnotta di pane, che sicuramente si era tolto di bocca per darla a me.
Alla sera, tornando al lager dalla fabbrica, incolonnati “drei mann”(pertre) e scortati dalle SS, noi ragazzi eravamo nelle prime fila. Io, Rinaldo, Ottavio, Natalino e Italo ci passavamo quel pezzo di pane,come fosse stato un tesoro tanto pesante, che tutti volevano aiutarmi a portare, forse solo per il piacere di toccarlo.
Fino ad allora mi sentivo, forse a ragione, odiato da tutti: dai francesi,perché li avevamo pugnalati alla schiena, dai greci ai quali volevamo rompere le reni, dagli inglesi e americani che avevamo stramaledetto, ed ora essi non avevano altro da fare che buttarci bombe in testa e mitragliarci.
Finalmente avevo una speranza ed un amico, quasi per incanto non sentivo più il dolore per le frustate e le bruciature nelle mani. Quel pezzo di pane, mi aveva dato una carica di energia e, per la prima volta,avevo rialzato il capo; non ero più un cagnolino impaurito, ma come Rinaldo camminavo con il busto eretto e fieramente guardavo negli occhi i ragazzi tedeschi della mia età, che tra un gioco al pallone e fare la guerra con armi finte, al nostro passaggio venivano a schernirci e a sputarci addosso. Poveretti! Dopo aver mangiato quel pane, con i miei compagni li avrei potuti sfidare e battere in qualunque contesa a pallone, io, Rinaldo e Ottavio li avremmo sicuramente demoliti.
Altra sensazione piacevole di quella giornata, forse perché avevo imparato ad alzare la testa, fu quella di aver scoperto che in quel paese “di merda”, dove il pane lo chiamavano “Brot” (brodo in piemontese) e i nostri flaccidi carcerieri invece di parlare abbaiavano come cani, c’era il sole che brillava, tanto da abbagliarmi.
Era una scoperta, dopo tanto tempo passato rinchiuso in un carro bestiame o nei capannoni della fabbrica!
Quella interminabile giornata non era finita; eravamo nel cortile del lager,per l’appello serale, quando uno dei carcerieri notò quel pacco con la pagnotta che tenevo sotto il braccio.
Successe il finimondo, venne una specie di interprete e cominciò l’interrogatorio; volevano sapere la provenienza di quel pane, ero nuovamente nei guai, evidentemente per nessun motivo avrei detto la verità e tradito il russo e ho continuato a dire che mi era stato dato da uno sconosciuto.
I carcerieri “abbaiavano sempre più ringhiosi” e tra un latrato e l’altro cominciò a sentirsi la parola KAPUT; la condanna era stata emessa, l’interprete mi comunicò che , in Germania, chi faceva borsa nera (questo era il mio crimine) era condannato a morte, e mi portarono al muro davanti alla mitraglia.
Ti posso assicurare che gli ultimi pensieri di un condannato a morte non sono quelli che senti negli spot alla televisione, anche se possono essere simpatici.
“Maledetti bastardi, ora mi chiederanno qual è il mio ultimo desiderio!” Avevo pensato di poter mangiare quel pane che intanto avevano buttato ai cani che lo disdegnavano, poi, pensando che mi sarebbe uscito dalla pancia per i buchi fatti dalla mitraglia, avevo optato di fumare una sigaretta, forse fumandola lentamente sarei vissuto qualche minuto in più. C’era un altro dilemma, quali sarebbero state le mie ultime parole? “W Badoglio?” No. Forse “W Stalin”o “W il comunismo” potevano farli incazzare di più, ma poi non avevo più avuto dubbi: da buon piemontese, come i martiri del Risorgimento, avrei gridato “W l’Italia”.
Quel sole che mi abbagliava anche davanti alla mitraglia era tramontato e un brivido di freddo mi fece tremare, ma venne buio e non si decidevano all’esecuzione.
Finalmente una guardia, a calci, mi rimandò nel camerone con i miei compagni.Ero salvo! Il rancio serale era finito e, come i bimbi cattivi, ero rimasto senza cena. Mi coricai nel mio giaciglio, i compagni mi avevano conservato la razione più grossa di pane, ma nemmeno questa ero riuscito a deglutire, l’avrei conservata per sopravvivere il giorno seguente. Dopo questo avvenimento avevo guadagnato il rispetto dei miei compagni, specie del professore di filosofia di cui non ricordo esattamente il nome. Anche in quei momenti pensavo che ero stato rimandato in matematica e avrei dovuto riparare, speravo perciò nel suo aiuto.
I suoi insegnamenti non riguardavano la matematica : per prima cosa imparai che potevo dire “Heil Liter (litro in piemontese)” pensando non a Hitler, ma ad una bottiglia di vino. Mi ero fatto rompere una mano per non aver fatto il saluto romano, ed ora era diventato un divertimento, perché mi sfogavo in ogni occasione a burlare i miei“aguzzini” con questo espediente.
Altro argomento del professore era il sabotaggio: questo mi creò non pochi problemi, perché seguendo i suoi insegnamenti, imparavo velocemente a fare i lavori che mi venivano assegnati per poi trovare il modo di sabotarli senza essere scoperto.
I sabotatori erano passati per le armi e, se sono vivo, è solo per pietà o perché mi consideravano deficiente.
Nella fabbrica meccanica di Gaggenau, con la qualifica di studente di Ghinasium, ero stato adibito a lavorare con diverse macchine, ma testardamente ero sempre riuscito a procurare qualche disastro. Le punizioni non erano state altro che qualche calcio nel sedere. Dopo circa un mese venni trasferito per punizione con altri deportati.Rispondendo alle domande sulla nostra destinazione, le guardie si erano limitate a sghignazzare e incrociare le dita per farci capire che andavamo in prigione, come se il lager che ci ospitava non fosse una galera.
La minaccia di quella mimica mi era familiare.
Avevano ragione i nostri “aguzzini”, la zona era tutti i giorni sotto le bombe, il lager Sandhofen era privo di ogni servizio, il tratto di strada dal lager alla fabbrica era maggiore, il giaciglio che mi era stato assegnato era composto da tre sole tavole di legno e per finire, in caso di bombardamento, non arrivava il bidone della solita brodaglia di rape e cavoli e si rimaneva digiuni. Ero veramente caduto dalla padella nella brace. Ero stato adibito nella fonderia Waldhof alla sbavatura delle fusioni per carri armati.
Ognuno aveva un attrezzo particolare per togliere parte delle scorie per poi spingere il pezzo al compagno, su un percorso di cilindri; anche in questo caso la catena si fermava perché, come al solito, il mio lavoro risultava incompleto e, come al solito, urla, imprecazioni,minacce e botte.
La mia carriera professionale era perciò finita all’ ultimo stadio con una carretta. Dovevo alimentare con carbone alcuni bracieri. Il tratto era lungo e alle intemperie ero vestito con una tuta con la quale ho passato l’inverno 1944. Se ben ricordo la prima neve era caduta molto presto, forse addirittura a settembre. Cercavo di ripararmi imbottendomi di carta, ma era difficile procurarsi anche quella.
In compenso godevo di una certa libertà di movimenti, perché non ero controllato e dove c’era lo scarico del carbone scaricavano anche le patate per la mensa. Quando riuscivo a procurarne qualcuna la cucinavo nella cenere del braciere.
Un giorno, sotto i bombardamenti alleati, avevo sentito il filosofo invocare: “Bombe! Bombe!”. Alla mia richiesta meravigliata, mi aveva spiegato che più bombe venivano sganciate, prima sarebbe venuta la nostra liberazione. Da allora consideravo i bombardamenti una benedizione; quando c’era l’allarme mi divertivo a gridare“Bombe! Bombe!”.
I tedeschi che terrorizzati si affrettavano nei rifugi, credevano fossi pauroso come loro. Io, dopo aver raccolto nei capannoni deserti la loro colazione dimenticata per la fretta (non escludo lo facessero di proposito, perché sentendo l’avvicinarsi della disfatta, erano diventati più umani nei nostri confronti) invece di andare nel rifugio, salivo sul tetto del capannone e tra il frastuono delle bombe e della contraerea per farmi coraggio, avevo escogitato un motto che ripetevo continuamente: “Com’è bello morire mangiando”.
Per non fare apparire il popolo tedesco come un’orda di bruti assetati di sangue vorrei salvare le poche Frau e Fräulin che ho conosciuto:tanto erano umane quanto disumani i nostri sbirri. Nella fonderia di Waldhof usando il martello e una specie di scalpello, mi ero ferito una mano.
All’infermeria della fabbrica una graziosa infermiera, dopo avermi medicato con cura e incerottato, mi aveva offerto da bere una bibita dolce. Per tornare nell’infermeria, dove mi permetteva di pulirmi con un pezzo di sapone (mai più usato se non in occasione di spidocchiamenti) non esitavo a darmi una nuova martellata sulle mani.
Altra ragazza che ricordo con riconoscenza lavorava alla mensa dei tedeschi; con un sorriso mi indicava furtivamente dove aveva conservato gli avanzi del rancio. Io mi nascondevo per divorare quel cibo a volte anche abbondante, perché mi era entrata in corpo una fame che niente riusciva a saziare. Ricordo ancora chiaramente il viso grassoccio di quell’operaio tedesco che terrorizzato e quasi implorante, mi faceva segni per indicarmi un panino con marmellata lasciato in un angolo. Evidentemente aveva più paura lui di darmi quel regalo che io di accettarlo.
Quanto ti ho raccontato è forse la parte meno penosa del mio racconto. Ti parlerò di camere a gas.
Ci portavano a Natzweiler, era una festa vedere cose nuove, ad esempio quel bel cancello con sopra scritto ARBEIT MACHT FREI (il lavoro rende liberi). Dopo la visita medica, una doccia, mentre gli abiti e le coperte disinfettate dal gas, ci concedevano qualche giorno di sollievo dai pidocchi.
Certo non sapevo che quando eri malato o stentavi a camminare (cosa molto comune per le piaghe che procuravano gli zoccoli di tela spesso bagnati) bastava uno scambio di percorso e finivi nella camera dove,invece che acqua, usciva gas. Al ritorno, quelli che mancavano erano invidiati, erano andati al Lazaret (l’ospedale) o forse rimpatriati; non sapevamo che il miasma che si sentiva nell’ aria era quello delle loro ceneri che passavano per il camino.
Sono ancora tanti i fatti che mi vengono in mente: la morte di Spesso Lelio di Sant’Ambrogio con i miei zoccoli nei piedi, Natzweiler e un altro lager sempre per punizioni, per finire a Dachau dove il giorno di Natale 1944, ho ricevuto il regalo più bello della vita, perché divincolandomi avevo rovesciato, appena in tempo, la tinozza di escrementi nella quale un Kapo stava tentando di affogarmi; questo non ha lasciato segni, ma se guardi il mio viso, la fronte gonfia, le cicatrici che ho sul corpo, tutte ricordano un susseguirsi interminabile di violenze che non si cancellano e non possono essere dimenticate, desisto dal raccontarle.
Ero tornato a casa, pesavo 35 chili ed ero pieno di pidocchi, tanto che ho rifiutato l’abbraccio dei miei genitori prima di aver fatto un bagno e bruciato tutti i miei stracci nel cortile, ma la sensazione indescrivibile è quella di aver finalmente posato le mie membra su un morbido letto, dopo aver dormito quasi un anno per terra ed aver assaporato, fingendo di dormire, le carezze dei miei cari e dei vicini che in coda, bisbigliando, venivano a vedermi.
Se ogni storia ha una morale, avrai capito perché il nonno si infuria quando vede sprecare un pezzo di pane e non lascia avanzi nel piatto"
(testimonianza raccolta da Viviane Babette Agnès)

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