lunedì 13 marzo 2017

E' IL CAPITALISMO, BABY

Succede che in una grande azienda dell’hinterland torinese un operaio, tornato da poco al lavoro dopo aver sconfitto una brutta malattia, venga licenziato.
Licenziato perché, dopo aver subito un trapianto di fegato, è stato considerato non sufficientemente produttivo da poter essere impiegato nella grande catena di montaggio. Nessun appello, neanche la possibilità di essere impiegato con una mansione diversa.

“Se non sei produttivo non mi servi e diventi uno scarto”:  una logica terribile ma che appartiene al Capitalismo, dove esiste il denaro e il profitto prima di tutto.
Prima delle persone, ritenute strumenti che creano ricchezza. Prima dell’ambiente considerato un mezzo da sfruttare per arrivare al guadagno.
Nel raggiungimento del suo obiettivo il Capitalismo non guarda in faccia a niente e a nessuno. Non esiste un volto buono, come spesso si racconta, perché questo sistema produttivo è feroce e mangia tutto quello che trova sulla sua strada.

Questa vicenda ha avuto un grande risalto mediatico grazie alla solidarietà dei compagni di lavoro che hanno proclamato lo sciopero, facendo sì  che l’azienda, anche per la cattiva pubblicità, rimettesse almeno in discussione il licenziamento. Ma il lieto fine è ancora lontano, perchè l'operai non ancora reintegrato.
Questa volta la lotta ha pagato perché l’opinione pubblica ha percepito che si fosse davvero oltrepassato il limite. Quello della dignità della persona,in primis, e poi quella del lavoratore.

Ragioniamo sul perché questa azienda si è sentita di avere la libertà di oltrepassare questo limite.
La ferocia del capitalismo è stato contenuto a fasi alterne e con le grandi lotte di 40 anni fa da alcuni attori in gioco: lo Stato e i sindacati confederali.
In questi ultimi 20 anni sono stati man mano smantellati i diritti dei lavoratori, a cominciare dalla legge Treu fino ad arrivare al Jobs Act. Lo Stato ha deciso di piegare i diritti alle leggi del Mercato, introducendo la flessibilità e la precarietà.  Anche i principali sindacati hanno scelto questa strada, venendo meno al proprio ruolo: le loro contrattazioni spesso risultano al ribasso per cercare di contenere lo strapotere delle aziende che minacciano licenziamenti e delocalizzazioni.
E qua in casa, a Torino, abbiamo l’esempio scintillante della Fiat, anzi della FCA, che è stata la nave scuola per tutte le altre imprese. Ha infatti provato, riuscendoci, a forzare i rapporti tra lavoratori, sindacati e istituzioni.

Sì, quella politica che ha stretto la mano al padrone della città: “Se fossi un lavoratore Fiat voterei sì al referendum”, dichiarò Piero Fassino, così come l’allora sindaco Sergio Chiamparino. Il risultato è stato disastroso per i lavoratori e per la stessa città di Torino.
E’ in questo vuoto, libero e tremendo, che si inseriscono le azioni di molte aziende.  Il capitalismo deve essere contenuto, regolamentato non secondo le leggi del mercato ma del diritto dei lavoratori, precari, schiavi dei rinnovi di contratto, senza più una rete di tutele.

Bisognerebbe uscire dalla logica del solo profitto a tutti i costi e cominciare a considerare il lavoro come un mezzo per permetterci di trascorrere una vita dignitosa, e non come luogo di soprusi e paura. Iniziando a riprenderci i diritti che negli anni ci sono stati tolti, chiedendoli a gran voce soprattutto nelle piazze, realizzando quella giusta pressione di popolo che porta ai cambiamenti.

“Voglio un progetto di vita e non una vita a progetto”: recitava così uno slogan della sinistra nella lontana campagna elettorale 2006. Un obiettivo disatteso e dimenticato dalla politica, ma non dai lavoratori che ogni giorno lottano per la dignità del lavoro.

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