lunedì 20 luglio 2015

Dubitare per costruire: conclusioni su AREA - Festival Internazionale dei Beni Comuni

Inutile negarlo, inutile tergiversare, a Chieri dal 9 al 12 luglio si è parlato di politica. Se n'è parlato negli spazi pubblici del piccolo comune piemontese, nei cortili e per le strade, nelle piazze, sui binari e nei caffè. Si è ragionato insieme sui modi del vivere e produrre in comune, dubitando e costruendo. Un laboratorio di confronto, a cielo aperto, sulle forme della democrazia, sul concetto di proprietà, sul condividere e l'amministrare, sull'esercizio dei diritti, la generazione di valore sociale e il rispetto delle generazioni future.
Diverse e talvolta contrastanti le posizioni emerse, mature e decise nell'assumere come punto di partenza comune il rifiuto dei meccanismi privatistici, la deriva del neoliberismo produttivo e finanziario, la necessità di sottrarre hic et nunc il discorso politico alle logiche del mercato. Prezioso ogni contributo, dai palchi alle platee. Dalle chiacchiere sui prati, alle discussioni accese nelle ore notturne.

Quando non scrivo favolette per Sistema Torino mi occupo di rendicontazione sociale; il mio lavoro consiste nel far emergere, mettere a fuoco e analizzare i risultati prodotti dall'azione dell'uomo sulla società e sull'ambiente. E' il mio mestiere, nel mio caso malpagato e precario, a tratti ancora acerbo, ma è il mio mestiere. Tirare le fila dell'incontro di Chieri, rendere evidente quanto è stato generato, quali valori possono esser messi a patrimonio e da cosa si ripartirà domani dovrebbe risultarmi facile ma non è così. Il discorso sui Beni Comuni non è univoco, non è lineare. Ha implicazioni e sfumature che toccano il piano politico, giuridico, quello economico, sociale e culturale. Cogliere e restituire il portato dei discorsi di Chieri è complesso e questo perché quello dei Beni Comuni è un nuovo paradigma che non ha regole già scritte e non ha dogmi già riconosciuti, è un paradigma che si sta costruendo piano piano e con l'esperienza. La natura paradigmatica dei Beni Comuni, unita alla natura costituente, fa sì che i discorsi e le pratiche non si esauriscano in quattro idee coerenti e concluse ma implica, inevitabilmente un insieme di teorie, modelli, principi e pratiche in fìeri che hanno ricadute concrete in più settori i quali assumono, appunto, i Beni Comuni e la loro difesa a valore di riferimento.
Negli ultimi vent'anni molto lavoro è stato fatto nel nostro paese, dall'esperienza della Commissione Rodotà alle lotte per l'Acqua Pubblica, il referendum del 2011 e la sentenza della Corte Costituzionale contro il decreto Ronchi; la stagione delle occupazioni e il lavoro della Costituente dei Beni Comuni e, più recentemente, il lavoro sugli strumenti amministrativi che consentono la partecipazione dei cittadini nella cura, rigenerazione e gestione dei Commons.

In questi anni si è detto Bene Comune di quasi ogni cosa: la cultura, i saperi, le risorse naturali, il lavoro, la salute, la mobilità, la scuola, il territorio, realizzando a tratti un'identificazione quasi totale tra il dominio dei Beni Comuni e quello dei diritti. La sfiducia nei modelli di governo ci ha fatto dire Bene Comune di beni di cui si sarebbe dovuto dire Bene Pubblico lasciandoci sottrarre, almeno nei discorsi, all'uso privatistico anche statale, quei beni che sono di ciascuno di noi. In questi anni si è anche provato ad immaginare forme diverse di amministrazione mutuando, talvolta, forme giuridiche e processi di governance da altri paesi occidentali, paesi che hanno una storia diversa dalla nostra e che hanno avuto modo, prima di noi, di affinare gli strumenti di resistenza alle privatizzazioni speculative. Oggi parlare di Beni Comuni senza fare una riflessione sui Beni Pubblici non ha alcun senso. La categoria del comune non è sostitutiva e si colloca accanto sia ai beni pubblici che a quelli privati. Se recuperiamo la tassonomia della Commissione Rodotà scopriamo che comune non è una terza forma di titolarità ma è un cappello che non coincide né con ciò che è pubblico né con ciò che è privato. Comune definisce una categoria terza di beni e non di enti, la cui titolarità rimane in capo agli enti pubblici o ai soggetti privati, beni vincolati al perseguimento dell'interesse generale; se di titolarità pubblica, beni inalienabili e cedibili solo temporaneamente che vanno amministrati in maniera da garantire la massima accessibilità sia delle generazioni viventi che delle generazioni future

Come mai il discorso sui Beni Comuni si è allargato così tanto in questi anni? Come mai abbiamo smesso di parlare di Beni Pubblici e trattiamo ogni diritto come se non dovesse essere garantito dallo Stato? Perché e quando lo Stato e gli Enti pubblici sono diventati soggetti privati dotati del potere di svendere risorse e patrimonio? Dubitare, dubitare per costruire. Nei giorni di Chieri si è dubitato ma sul ruolo delle politiche di austerità nella demolizione del welfare pubblico non c'è nessun dubbio.
Gli interventi succedutisi durante il Festival sottendevano tutti un chiaro rifiuto del potere privatistico delle politiche pubbliche. C'è chi si oppone alle privatizzazioni invocando la Costituzione e chi demolendola, c'è chi invoca le riappropriazioni dal basso e chi lavora per umanizzare le amministrazioni, chi va a caccia di un imprenditore politico capace di fare dei Beni Comuni un manifesto e chi intercetta strumenti capaci di vincolare i beni agli scopi di utilità generale. Questo vuol dire per i Beni Comuni essere paradigma. Si tratta di lavorare su piani diversi anche apparentemente inconciliabili, lasciare che i discorsi penetrino e si radichino, muoversi da diverse prospettive in contesti differenti assumendo un solo ed unico valore come riferimento: la difesa dei Beni Comuni. Gli strumenti, i modi e i mezzi a difesa dei Commons non si collocano in una sola dimensione. A questo è servito Chieri: a dimostrare che le azioni dei movimenti, le forme di privato virtuoso, l'amministrazione condivisa e le politiche partecipative sono, nella difesa dei Beni Comuni, portatori di valori e disvalori e solo se lavorano in maniera sinergica e congiunta e solo se lavorano a partire da un ripensamento in primis di ciò che è e deve rimanere pubblico e di ciò che deve tornare pubblico e vincolato all'interesse di tutti, riusciranno a resistere e a raggiungere lo scopo comune. Ripensare i Beni Pubblici significa in primo luogo arginare le politiche di austerità e bloccare, ora e subito l'ondata delle privatizzazioni, significa garantire l'accessibilità e redistribuire i proventi. Prescindere da questo punto è un grosso rischio che farà sì che il discorso sui Beni Comuni divenga solo un altro strumento a servizio delle privatizzazioni, che farà sì che quelli che oggi chiamiamo Beni Comuni domani siano Privati e che quelli che chiamiamo diritti domani siano chiamati esternalità positive di prodotti di mercato, che quelle che chiamiamo persone domani siano consumatori o target di prodotto. O forse siamo già a questo punto. Allo stesso tempo sarà necessario scindere il discorso sui Beni Comuni da quello sull'esercizio pubblico e riconoscere che in quanto tali i Beni Comuni sono forme che, senza giustificare le privatizzazioni, si muovono sul terreno del diritto civile e hanno lo straordinario potere di riassettare il diritto privato su scopi d'interesse generale. 

Chieri è stato un confronto a cielo aperto che ha coinvolto migliaia di persone dalla provenienza più disparata, dal punto di vista geografico, politico e culturale. Il Festival dei Beni Comuni ha messo fianco a fianco ex cattivi maestri e cattolici praticanti, esperti di finanza e attivisti dei movimenti, amministratori pubblici e anarchici convinti.
Per costruire bisogna superare la paura senza smettere di coltivare il dubbio e bisogna farlo insieme.
Chiara Vesce



sullo stesso blog e' pubblicata inoltre la registrazione della lectio magistralis di Stefano Rodotà tenuta al festival di Chieri 



5 commenti:

  1. Maurizio Pagliassotti21 luglio 2015 alle ore 17:38

    Il meccanismo che prende il nome di "bene comune" proposto dal festival è di tipo squisitamente privatistico. E emersa anche una sostanziale, e reazionaria, valutazione delle istituzioni pubbliche: incapaci e quindi da buttare. Del tutto in linea con i tempi che corrono e, direi, non particolarmente rivoluzionaria. Una specie di legge ontologica, secondo cui il pubblico è male, mentre privato e bene. Un festival con moltissime ombre.

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    1. Mio caro P. i Beni Comuni non sono un meccanismo, non sono un congegno. Su questo è evidente la pensiamo diversamente. Quello che sui B.C. è emerso, mai così chiaramente come a Chieri, è un insieme complesso, non rigido e non ancora coerente di teorie, approcci e strumenti, alcuni dei quali di natura privata. Non nego che siano emersi giudizi fortemente negativi sulle istituzini pubbliche ma, personalmente, trovo molto riduttivo identificare i B.C. con quattro idee strutturate e concluse. Non restituisce giustizia a tutte le posizioni emerse e assimila molto pericolosamente tutto il pacchetto Beni Comuni: diritti, partecipazione, democrazia continua etc., ad una specie di anarcocapitalismo. Io preferisco dubitare che demolire, dubitare per costruire.

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  2. Non ho seguito tutti gli incontri e quindi il mio parere e' incompleto, ma ho avuto anche io pero' la percezione, in qualche occasione, di richiami alla necessità di un sistema articolato di valori e strumenti giuridici da definire come 'beni comuni' da usare come soluzione alternativa, in un contesto di regime giurdico privatistico, alla gestione pubblicistica diretta: con motivazione nella sfiducia circa la capacità delle istituzioni pubbliche di operare in modo corretto ed efficiente. Devo dire pero' che si sono sentite anche autorevoli voci, di giuristi e altri uomini di pensiero invitati a contribuire al dibattito, esprimersi negativamente circa la possibilità di beni comuni strumento di riduzione dello spazio pubblico governato con l'esercizio della democrazia. E anzi ipotizzare lo sviluppo di nuovi spazi di rappresentanza democratica collettiva (che sono inevitabilmente di contesto pubblico) a cui collegare beni comuni intesi come ulteriori strumenti finalizzati a soddisfare e preservare i diritti generali delle persone singole e della collettività in senso ampio. Oltre che nei pareri autorevoli, questo indirizzo si ritrova sicuramente nell'azione dei movimenti che hanno contrastato e contrastano tuttora la gestione a fini privatistici dei beni fatta anche dagli enti pubblici in ossequio agli indirizzi neoliberisti che emergono sempre piu' nella rappresentanza politica. Movimenti che erano presenti ma la cui incidenza all'interno del festival non mi e' sembrata proporzionata a quella che hanno invece nella realtà (sara' poco indicativo, ma ho visto il banchetto del Comitato Acqua Pubblica, esperienza di tipo fondante sulla materia beni comuni, relegato in una piazzetta a duecento metri dalla zona in cui si svolgevano gli incontri), tanto da arrivare ad annullare senza neanche preannunciarla la assemblea prevista per il sabato tardo pomeriggio. Concordo sul fatto che questa edizione abbia comunque aperto un dibattito che altrimenti non ci sarebbe stato in modo cosi' evidente e partecipato e che non per questo sia stato privo di ombre o ancora, per forza di cose, di zone d'ombra

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    1. a me sarebbe piaciuto andare al festival dei Beni comuni (almeno per sentire di cosa si trattava) e invece non ce l'ho fatta per vari motivi. Da cosa leggo nei diversi commenti, però, quello che mi dà più l'idea della complessità del problema, è quanto scrive Claudio. D'altra parte, tanto per prendere un esempio di attualità, nel momento in cui si vede un ente come l'AEEGSI (pubblico), imporre ad un piccolo comune come Saracena (altra istituzione pubblica), di aumentare le tariffe dell'acqua perché, nonostante il referendum, non vengono fatti sufficienti utili, direi che non si dovrebbe più parlare di bene pubblico contrapposto a bene privato, ma solo di beni comuni amministrati, o no, con politiche di tipo privatistico anche dagli enti pubblici. Stessa cosa vale ovviamente per la sanità, la manutenzione del territorio, i problemi relativi ai cambiamenti climatici, green economy, ecc...ecc...

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    2. dalla cattiva amministrazione dei beni non ci si salva in effetti con le formule giuridiche ma con quelle politiche e purtroppo le cattive politiche fanno danni negli enti pubblici come nel privato. chiaro che affidarsi a un modello privatistico che per quanto virtuoso deve fare i conti con la concorrenza di mercato, come anche e' gia' una gara per la concessione dei murazzi al soggetto che paga di piu', vuol direi poi condizionare la gestione del bene ai parametri economici di quel mercato a cui il soggetto privato fa riferimento, pena senno' il fallimento della gestione. Certo che la gestione pubblica condizionata da una politica al servizio di una ideologia liberista e dei poteri esterni alla logica di democrazia e pari opportunita' non puo' che degradare ugualmente il bene comune o pubblico oggetto della gestione medesima. Il bene comune potrebbe essere una categoria che sottrae cio' che ne e' oggetto all'influenza nefasta delle logiche di gestione privatistica basate sul mercato e a quelle delle scelte politiche che non salvaguardano il patrimonio e i diritti condivisi. Rodotà se ho capito bene ipotizzava la necessita', per poterlo fare, di forme di democrazia piu' avanzata e continua in grado di esercitare un controllo e una possibilita' di scelta da parte delle comunita' piu' serrati che non quelli attuali, che lasciano ampi margini di manovra decisionale indisturbata i cui esiti quando si manifestano non possono piu' essere messi in discussione. Ma quali possano essere questi spazi nuovi di maggiore e diversa democrazia da legare al concetto di bene comune nemmeno lui lo sa, ha ammesso dicendo che si e' in un periodo di riflessioni ancora. Quindi mettere il cappello sul concetto di beni comuni definendolo adesso una volta per tutte non e' opporuno e corretto. E' corretto dubitare, invece, come dice Chiara.

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