Come ogni anno, periodicamente si rinnova il miracolo dei torinesi che
accorrono in massa al Grande Evento del Momento, e si scoprono improvvisamente
appassionati di arte contemporanea ("ti è piaciuto?" "Mah, non è che ci capisca
molto però volevo proprio andarci..."), conoscitori di jazz (ieri sono andato al
concerto in piazza, c'era uno che non mi ricordo il nome, bello eh, anche se
dopo un po'...), intenditori di sport per vecchietti, maratoneti, fini
degustatori di vini e attenti consumatori di food sostenibile.
Salvo il fatto di tornare il giorno dopo a riempire il solito centro
commerciale ed essere impermeabili a qualsiasi sollecitazione
eno-gastro-cultural-artistica che non preveda almeno la difficoltà del
parcheggio, la calca alla cassa, un biglietto salato, e un rumore di fondo
degno di attenzione.
Non entro oltre nel merito del “dove caspita siete quando si organizza una
mostra che non fa parte del Grande Circo del Pensiero Unico?”
Voglio invece concentrarmi sul dopo kermesse, in particolare sulla sua
santificazione come indispensabile volano economico e generatore di Grandi
Numeri.
Cinquantamila presenze ad Artissima, ventimila visitatori domenica che hanno
messo in difficoltà i volontari (ah, i volontari, altra bella storia, i
volontari) dell'organizzazione di Paratissima.
Più 30% visitatori ad Artissima, “mai
così colti” (tutti dati di fonte La Stampa) che hanno generato un volume
d'affari di 10 milioni di euro.
Bene, analizziamo i numeri: detti così fanno impressione al
pensionato della bocciofila ("mi capisu nen d'l arte, ma va bin parei, è tutto
guadagno"), ma è una impostazione giornalistica, se mi permettete un po', come
suol dirsi, da cioccolatai (con tutto il rispetto per il nostro ottimo
cioccolato. Ah, già, c'è anche la settimana del cioccolato, dimenticavo.
Sappiamo tutti riconoscere la differenza tra una varietà e l'altra del cacao,
compreso quello mangiato e poi espulso dalle scimmiette. Cattelan ne sarebbe orgoglioso).
Lo sceicco che va da Fendi o altri negozi del lusso in centro e si compra la
borsa di coccodrillo da 40.000 euro, non sta lasciando quarantamila euro
in città: li sta dando a Fendi, alla casa madre, per un prodotto realizzato in
Cina: a Torino, al massimo, resta qualche unità percentuale del prezzo pagato
come guadagno del gestore del punto in franchising e i 60 euro della
giornata della commessa. Sia che venda la borsa da 40.000 euro, sia che
venda un paio di jeans da 30. Quello è, non resta qui nemmeno l'IVA sul venduto.
Inoltre, non si può spacciare come grande risultato economico un volume
d'affari generato all'interno dei poli del lusso, quando questo non ha ricadute
sul resto della città.
Quanti collezionisti hanno fatto la spesa ad Artissima? 200?500? 1000? e gli
altri 49.000 visitatori?
10 milioni di euro di ricaduta economica, gran parte fatti da 1000 collezionisti o
emissari di musei pubblici, sono 10.000 euro a testa.
150 euro a notte + 60 euro a pasto sono circa 300 euro a persona al giorno,
aggiungendo l'amante, sono 600 euro per 3 giorni di trasferta = 2000 euro mettendoci dentro
anche il gelato.
Restano 8.000 euro a inviato per le spese artistiche di un collezionista
straniero in una galleria straniera di un artista straniero presenti ad
artissima. Nemmeno un euro di quelli è rimasto in città. Nemmeno l'IVA.
E' questo un volano economico? A me sembra una normalissima fiera di settore,
che con 8.000 euro medi di spesa a testa per addetto qualificato, è anche
abbastanza provinciale. Alle fiere dell'edilizia i muratori spendono di più per betoniere, muletti e
miniescavatori.
E se questa è una normalissima fiera di settore, perchè “vestirla” come il più
importante evento artistico dell'anno, abbindolando, è il caso di dirlo, gli
altri 49.000 visitatori, e facendo per di più pagare un salato
biglietto d'ingresso?
Col risultato di far uscire dalla visita un pubblico già di per sé non
preparato, che non viene formato all'interno, visto come elemento di disturbo,
perchè tanto non è lì per comprare, che ne esce perplesso e che quando si
tratterà di poter vedere mostre indipendenti di artisti locali dirà che è roba
che non si capisce, che quelli sono matti o drogati e che è meglio fare la coda
per vedere le opere minori di Degas, alla GAM, ammonticchiate come da un
rigattiere, che perlomeno si capisce che un vaso di fiori dipinto è un vaso di
fiori.
L'arte, proposta in questa maniera, con toni grandiosi, ma pur sempre declinata
come elemento elitario, irraggiungibile, oggetto del desiderio o anche solo di
un mondo lontano dal nostro quotidiano, non fa altro che generare un
allontanamento da parte del pubblico, un suo progressivo imbarbarimento
culturale o, al più, il desiderio di scimmiottarla, comprando le croste industriali
cinesi della Grande Distribuzione, a 40 euro.
Un altro sistema dell'arte è possibile, ma soprattutto esiste un altro modo di
creare cultura e desiderio di conoscenza nelle persone che popolano questo
territorio, con minori risorse, magari, ma in maniera costruttiva, condivisa,
sostenibile, accessibile a tutti.
Di Paratissima, dell'uso “sociale” della creatività cittadina, e della
possibilità di farsi ramazzare gratis, anzi a fronte del pagamento di una quota
di partecipazione, location abbandonate e vandalizzate per il resto dell'anno,
magari lo affronterò un'altra volta.
Della mostra di Cattelan invece non ne voglio parlare.
Consideratemi morto.
Se voi non lo siete, seguite la timetable che ha dettato con la sua mostra
(tanto l'inglese lo conosciamo tutti, no?)
Daniele D'Antonio
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