I beni comuni si sono fatti largo nei nostri discorsi senza chieder permesso. Argomento da bar, traccia di temi scolastici, punto imprescindibile della carta dei principi di collettivi indipendenti; compaiono su manifesti elettorali, tra le pieghe dei discorsi manageriali così come nelle assemblee pubbliche. Sono oggetto di studio di giuristi, scienziati della politica ed economisti; te ne puoi riempire la bocca, li puoi sfruttare o puoi praticarli rispettandoli. I beni comuni sono sempre esistiti. Quando eravamo bambini non avevano nome, condivisi, rubati o consumati, li vivevamo senza nemmeno nominarli. Chi cresce oggi deve sapere che non sono trascurabili, che la loro esistenza potrebbe durare non per sempre, che vanno difesi, sottratti al potere dell'homo oeconomicus, preservati.
Sul tema dei 'Commons' abbiamo sentito la voce di Stefano Zamagni chiedendogli di raccontarci come mai la riflessione sui beni comuni si è imposta con così tanta forza, da dove arriva e dove, questa riflessione, ci condurrà. Stefano Zamagni è Professore di Economia Civile all’Università di Bologna e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, Bologna Center. E' stato Presidente dell’Agenzia per il Terzo Settore. Oggi presiede la Commissione Scientifica di AICCON.
Era un luminoso mattino di febbraio, era Bologna, il freddo sembrava sopportabile e si poteva andar per sogni.
Prof. Zamagni, la nozione di bene comune, ormai usata in senso trasversale e talvolta con poca chiarezza, pur essendo una categoria di pensiero affatto moderna, sembra esser divenuta oggetto di riflessione solo recentemente. Può spiegarci cosa ha fatto sì che il tema dei 'Commons' divenisse di così ampia rilevanza?
“La tematica dei 'Commons' che noi traduciamo in italiano con 'Beni Comuni' è sorta e si è imposta all'attenzione dei più in epoca relativamente recente. Il primo studio sui beni comuni, in particolare sull'acqua, rimasto a lungo lettera morta, è uscito nel 1911 ad opera dell'economista americana Katharine Coman. Ma è nel 1968 che il tema dei 'Commons' diviene centrale nella riflessione economica, quando un biologo e chimico americano, Garrett Hardin, pubblicò un articolo, che lo avrebbe reso celebre in tutto il mondo, dal titolo “The tragedy of the Commons”.
Pur non essendo un economista, Hardin scelse di adottare lo stile di pensiero della scienza economica e mostrò che mantenendo l'assunto antropologico dell'homo oeconomicus, soggetto individualista ed auto-interessato, in presenza di quei beni di fondamentale e primaria rilevanza quali sono i beni comuni, il problema della gestione non avrebbe potuto risolversi se non in tragedia”.
Gli approcci teorici ai beni comuni sono diversi e disomogenei; tutti convergono verso una
definizione di 'Commons' come quei beni che si collocano fuori sia dal dominio pubblico che dal dominio privato. Quali sono i rischi legati alla privatizzazione e quali quelli legati ad una gestione pubblicistica?
“La sfida lanciata da Hardin è stata inizialmente accolta da due diverse linee di pensiero. Secondo la prima soluzione, quella privatistica, per evitare l'esito tragico è necessario privatizzare i beni di proprietà collettiva: attribuire il diritto di proprietà di un bene comune ad un soggetto privato che imponendo il pagamento di un ticket riuscirà a regolamentare lo sfruttamento del bene. Ma è evidente che la soluzione privatistica, oltre che cozzare con problemi di natura etica, quale quello di giustizia, è una petizione di principio. Come si può, infatti, decidere a chi deve essere assegnata la proprietà del bene comune? Sulla base di quale criterio è possibile stabilire che un soggetto 'A' ha più diritto del soggetto 'B' o del soggetto 'C' di acquisirne la proprietà? Anche l'ipotesi di un'assegnazione tramite asta, non tenendo conto della natura comune del bene, rifinisce in una petizione di principio.
La seconda soluzione, quella pubblicistica, che si sostanzia nell'affidamento ad enti pubblici della proprietà dei beni comuni, è stata dimostrata altrettanto impraticabile sotto il profilo della gestione. Se è vero che l'ente pubblico usando la forza della coercizione può attribuirsi la proprietà di un bene comune, lo Stato infatti è l'unico soggetto che può esercitare legalmente la violenza attraverso la coercizione, è altrettanto vero che, nel momento in cui ci si pone nell'ottica della gestione, l'ente pubblico non sarà in grado di assicurare un risultato equo ed efficiente. La gestione diretta da parte di un soggetto pubblico di un bene comune rifinirebbe nei cosiddetti fallimenti di governo: corruzione, burocratizzazione, etc.. Anche il modello proprietà pubblica a gestione privata non riuscirebbe a garantire il fine di favorire il benessere della collettività. In un ottica di massimizzazione del profitto, quale quella del privato, qualsiasi soggetto a cui venga affidata la gestione del bene, finirebbe per sfruttare il bene comune, sottraendo alla collettività i benefici per suo esclusivo vantaggio”.
Come ci si può salvare, dunque, dalla tragedia dei beni comuni? Esiste una terza via che consenta il governo dei 'Commons'?
“Ciò che manca, tanto alla soluzione privatistica che a quella pubblicistica, è l'idea di comunità. La terza via è emersa in tempi molto recenti grazie al fondamentale contributo della scienziata politica Elinor Ostrom, prima donna a ricevere il premio Nobel per l'economia. La via è la seguente: se un bene è comune per sua natura, bisogna che anche la gestione sia di tipo comunitario, cioè né privata né pubblica. Non c'è, oggi, un corpus teorico sufficientemente robusto per dirimere ogni possibile dubbio rispetto a quale sia la forma giuridica attraverso la quale si possa arrivare alla gestione comunitaria di un bene comune. La soluzione cooperativa, tuttavia, è quella che sta ottenendo maggior consenso. La forma di Cooperativa cui faccio riferimento non è tuttavia quella tradizionale, ma una nuova forma nata in Italia 4 anni fa, per la precisione a Melpignano in Puglia. La soluzione della Cooperativa di Comunità, prevede che soci siano tutti i membri di una comunità. Tali Cooperative dovranno organizzarsi in forma multistakeholding comprendendo nella compagine sociale anche i portatori di altri interessi che non siano quelli interni alle comunità. Ad oggi, tuttavia, una teoria cooperativa a gestione multistakeholding non è ancora stata sviluppata anche se diversi sono gli sforzi in questa direzione”.
Negli ultimi tempi molte città italiane hanno iniziato a dotarsi di regolamenti cittadini, protocolli d'intesa o delibere d'uso civico che attribuiscono status giuridico alla categoria dei beni comuni. Lei ritiene necessario per esercitare il governo dei 'Commons' passare attraverso simili forme di riconoscimento giuridico?
“Già il codice giustinianeo riconosceva tre modalità di proprietà: pubblica, privata e comune, la gestione comune, sia a livello codicistico che di prassi è sempre esistita. L'articolo 43 della Costituzione prevede la gestione collettiva di certi beni; ancora oggi le valli e i boschi di alcune delle nostre regioni sono gestiti in forma comunitaria. I regolamenti, a cui lei fa riferimento e di cui a Bologna abbiamo un buon esempio, sono un prerequisito ma non risolvono il problema della gestione. La questione della gestione deve fare i conti con gli aspetti economici, con la sostenibilità di costi e con forme di responsabilità civili e penali di cui solo un soggetto giuridicamente autorizzato alla gestione, un soggetto d'impresa, può farsi carico. I regolamenti aiutano e sono di fondamentale importanza nel modificare le mappe cognitive e nel superare l'assunto dell'homo oeconomicus ma il problema della gestione chiama in causa soggettività d'impresa. Il territorio, che in Italia viene giù ad ogni pioggia abbondante, i mari, le coste, i beni culturali richiedono oltre ai presupposti teorici e giuridici la costituzione di soggetti che possano farsi carico delle responsabilità, dei costi e che distribuiscano i benefici alla collettività; in questo senso il modello della Cooperativa a governance multistakeholder può essere una soluzione ed è quella che personalmente prediligo”.
Parlare di soggetti d'impresa significa porre i beni comuni in un'ottica di mercato. Lei crede che trovi luogo la competitività nello spazio dei beni comuni o piuttosto in questo spazio si realizzano forme di competizione collaborativa?
“Questa domanda nasconde tra le sue pieghe un equivoco che è stato generato sostanzialmente per colpa degli economisti, l'equivoco dell'identificazione del mercato con una sua particolare specie: il mercato capitalistico. Non esiste un unico mercato regolato da principi fondamentali come la competizione. Bisogna affermare che i mercati sono di diverso tipo, battersi per una linea di civiltà e di libertà. Ci sono i mercati civili, che includono, e ci sono i mercati che escludono, come quello capitalistico che lascia fuori chi non ha potere d'acquisto, chi non ha una certa forma contrattuale etc... La formula della Cooperativa a governance multistakeholder è sì una formula imprenditoriale, si colloca nel mercato ma nel mercato civile. E' ovvio che il mercato capitalistico funziona con la gestione privatistica ma non è altrettanto ovvio che gli unici tipi di mercato devono essere capitalistici. Dobbiamo capire che per certe categorie di beni il mercato capitalistico può essere adeguato ma per altre categorie no. L'alternativa all'approccio comunitario nella gestione dei beni comuni fa sì che i beni comuni si autodistruggano o che prima o poi vengano privatizzati. Ma un mercato cooperativo esiste, il mercato può benissimo funzionare attraverso la cooperazione”.
Uno dei problemi legati ai beni comuni riguarda l'accessibilità; la società 2.0 ha permesso lo sviluppo di modelli di produzione, prevalentemente legati alle produzioni immateriali, che si sono dimostrati sostenibili dal punto di vista economico e, allo stesso tempo, capaci di garantire la più vasta accessibilità. Mi riferisco in particolar modo ai prodotti 'open source' e 'copy left'. Qual è l'impianto economico su cui queste forme di produzione s'innestano? Lei crede che questo modello di produzione sia esportabile al di là delle produzioni immateriali?
“L'impianto economico non c'è, non esiste. Su questo fronte la scienza economica è maledettamente arretrata. Fino a qualche decennio fa la tematica dei beni comuni era di fatto inesistente. Solo voci isolate, fino a 30, 40 anni fa, si ponevano il problema della distruzione ambientale, del territorio, della biodiversità o delle sementi. Le cose hanno subito un' accelerazione negli ultimi decenni, con la terza rivoluzione industriale e lo sviluppo delle tecnologie info-telematiche, ma ciò è avvenuto senza una vera riflessione in chiave teorica da parte della scienza economica. Gli economisti per decenni e decenni si sono formati in una certa direzione, per cambiare le mappe cognitive ci vuole tempo. Basti pensare al fatto che ci è voluta una scienziata politica per aprire gli occhi agli economisti. Questo è uno di quei casi in cui la prassi precede e guiderà la teoria. Nell'ambito dei beni comuni sta avvenendo che collettivi e forme aggregative di varia natura stanno avanzando, imponendo agli studiosi e ai ricercatori la necessità di teorizzare ciò che si sta già realizzando nella prassi. Questa è una novità di non poco conto”.
Lei crede che questa teoria, dunque, arriverà?
“Io sono vecchio, probabilmente non assisterò ai risultati teorici ma le prossime generazioni si, senz'altro”.
Nei suoi scritti, lei tende sempre a sottolineare il nesso tra beni comuni e reciprocità, come si estrinseca il principio di reciprocità nel governo dei beni comuni?
“Qual è il principio fondativo dell'impresa Cooperativa? La mutualità. La mutualità non è altro che una sub-specie della reciprocità. Il concetto di reciprocità è più ampio. Tra i membri di un'associazione, tra i membri di una famiglia, tra i membri di una comunità, il tipo di relazione che vige è la reciprocità. Ciò che è avvenuto è che il principio dello scambio di equivalenti di valore è andato sostituendosi alla reciprocità. Il principio dello scambio può dar frutti, sotto certe regole adeguate, quando si tratta di beni privati ma, quando si tratta dei beni comuni, produce risultati perversi. Quello che occorre fare è: rimettere al centro del dibattito la categoria di reciprocità che negli ultimi 60 anni è stata completamente espunta. Il modello culturale neoliberista ha finito per dominare, oltre che il mercato, anche tutte tutte le altre forme di organizzazione sociale: la scuola, la famiglia, la politica. La reciprocità si estrinseca secondo la regola della proporzionalità e non dell'equivalenza, nella reciprocità il primus movens non è l'interesse. La cultura della reciprocità può risolvere il problema dei beni comuni ma la battaglia sarà lunga e sarà una battaglia prevalentemente culturale. Una battaglia che non può essere evitata perché dei beni comuni non si può fare a meno, si può far a meno di certi beni privati ma non possiamo rinunciare ai beni comuni”.
(a cura di Chiara Vesce)
Nessun commento:
Posta un commento
Il commento ai post del blog di Sistema Torino è libero e non richiede registrazione. E' comunque gradita la firma. Commenti ritenuti inopportuni oppure offensivi verranno rimossi dagli amministratori