venerdì 17 ottobre 2014

Torino 2014: dove li mettiamo i poveri?

tratta da weekendatorino.wordpress.com
Intervista a Giovanni Semi, sociologo, docente di Sociologia delle Culture Urbane presso l'Università di Torino (a cura di Marina Massimello e Maurizio Pagliassotti)

Esistono diversi tipi di gentrificazione? Quella del Quadrilatero ha le stesse caratteristiche di quella di Vanchiglia?
Nonostante l’Italia scopra adesso il concetto, in realtà è esistente dai primi anni Sessanta e dunque vanta cinquant’anni di storia, di dibattiti e di mutamenti. Di conseguenza, esistono molte
forme di gentrification e in questo momento il concetto è talmente vasto da indicare la maggior parte delle trasformazioni urbane. Per dire, la definizione più utilizzata ora, descrive la gentrification come “la produzione dello spazio urbano per utenti progressivamente più ricchi”. 

Se dal generale ci soffermiamo sul locale, quello che è successo nel Quadrilatero è molto diverso da quello che è accaduto successivamente a San Salvario o Vanchiglia. Nel primo caso, infatti, quell’area è stata oggetto di una riqualificazione pensata già negli anni Ottanta, realizzata nel corso dei Novanta e i cui effetti più significativi si sono visti dai Duemila in poi. In un certo senso, il Quadrilatero Romano è un esempio “classico” di gentrification perché vi hanno attivamente partecipato il pubblico, con attori diversi come il Comune, la Regione o l’Unione Europea, in forte sinergia con il privato, in particolare la De.Ga. Nonostante non abbia allontanato direttamente molti abitanti, che erano già fuggiti dal Quadrilatero degradato degli anni Ottanta, di sicuro la riqualificazione ha agito da barriera classista nei confronti di tutta quella fascia di popolazione che non poteva permettersi affitti e acquisti dagli anni Novanta in poi. San Salvario e Vanchiglia, invece raccontano una storia diversa. In primo luogo, i loro cambiamenti non avvengono con un diretto e visibile intervento pubblico e, in fondo, vi sono pochi interventi urbanistici in questi due quartieri. In secondo luogo, in entrambe queste aree si può osservare della gentrification non tanto dal punto di vista residenziale, ma da quello commerciale. Non è mutata radicalmente la loro composizione sociale, anche se si è progressivamente “arricchita”, ma sono diminuiti drammaticamente i piccoli commerci tradizionali per fare spazio alle nuove attività rivolte a popolazioni studentesche o comunque più giovani, pensiamo al caso della movida, o alle nuove classi medie, e qui possiamo pensare all’offerta alimentare (cibo bio, tradizionale, vinerie…). Sarebbe però incompleto parlare di questi due tipi di gentrification, senza menzionare il fatto che tra la riqualificazione del Quadrilatero Romano e le trasformazioni degli altri due quartieri ci sono stati i Giochi Olimpici (e soprattutto, la sbornia successiva, in particolare) e  l’arrivo della crisi economica. Il pubblico si è dunque reso meno visibile negli interventi successivi perché oggettivamente meno in grado di finanziare come aveva fatto in passato ed ha assunto il ruolo di arbitro e di facilitatore (agendo sulle licenze commerciali, sui dehors, sulle viabilità, etc…), mentre il mercato, nella sua veste commerciale soprattutto, ha avuto un ruolo più importante.



Porta Palazzo appare indomabile nonostante gli sforzi. Perché?

Porta Palazzo ha una storia di irriducibilità che deve, essenzialmente, al proprio mercato. I mercati sono istituzioni sociali ed economiche che hanno delle proprie regole e questo mercato in particolare, che occupa piazza della Repubblica dal 1836, ha una storia eccezionale oltre che una sua dinamica. Il fatto che continui a nutrire le popolazioni più vulnerabili e marginali, che offra loro lavori regolari e irregolari, che faccia incontrare e conoscere persone diverse, rende questo territorio un caso unico in tutta Europa. Da ciò discendono molti effetti, compreso quello di garantire una connotazione “popolare” a un quartiere che è a ridosso del centro. Se poi prendiamo in considerazione che, fatto salvo per l’area del Cottolengo e per un paio di palazzi, tutta l’area di Borgo Dora è caratterizzata da una diffusa e parcellizzata proprietà privata, ecco che diventa molto complicato operare delle scelte speculative e rendere Porta Palazzo “cool”. 

L’orizzonte culturale della classe media torinese è cambiato. Dalla villettopoli della cintura alle varie spine?
Questa domanda richiederebbe una disamina molto complessa della composizione della classe media torinese, e non basterebbe un libro probabilmente. Direi che stiamo parlando di due classi medie, diverse tra loro. Da un lato quella, più anziana, che ha potuto giovare dei redditi e delle pensioni della fase espansiva torinese e che, a partire dagli anni Settanta, si è spostata a vivere nella cintura, contribuendo alla suburbanizzazione torinese. L’altra, che in molti casi è più giovane della prima, essendo la generazione dopo o quella dopo ancora, è invece rimasta più urbana e ha trovato, nelle Spine, un’offerta abitativa. Detto questo, le Spine sono piuttosto diverse tra loro e gli abitanti di Spina 1 non sono lo stesso ceto medio di Spina 3. I primi si agganciano, per così dire, alla Crocetta e rappresentano senza dubbio un ceto medio superiore, mentre gli abitanti delle diverse parti di Spina 3 costituiscono una popolazione molto più mista. Gli orizzonti culturali di questo insieme di gruppi sociali sono anch’essi frastagliati, anche se direi che sono uniti dall’importanza che hanno attribuito alla proprietà della casa e ai valori che ne conseguono, in primo luogo l’indipendenza e il conservatorismo di chi, anche giustamente, non può permettersi che il proprio investimento principale perda di valore.

Un giudizio sulle spine passate e future. Che ne sarà della Variante 200?
Domanda complessa, in particolare perché non è chiaro se e quando usciremo dalla crisi che colpisce il nostro paese dal 2008 almeno. La crisi ha avuto un effetto chiaro e ambiguo: ha fatto crollare il mercato immobiliare. Si tratta di un effetto ambiguo perché, se è vero che ha causato dei drammi sociali indiscutibili, in particolare per quei nuclei familiari che avevano contratto dei mutui e hanno poi perso il posto di lavoro e stanno quindi rischiando anche di perdere la casa, va anche detto che ha “sgonfiato” la bolla che dagli anni Novanta aveva ingiustificatamente fatto esplodere i prezzi delle case (e delle poche locazioni). Dico questo per ricordare che la Variante 200, e in generale ogni progetto di sviluppo urbano che si basa sulla costruzione di nuove aree residenziali, non è detto che abbia ancora realmente una sua domanda di abitazione. Non necessariamente una domanda rivolta all’acquisto, ad ogni modo. E’ invece chiaro che esiste una domanda, crescente e fragile, di abitazioni da affittare. Ed è questo il grande nodo irrisolto e drammatico che dovrebbe affrontare una città come Torino.


Variante 200: chi investe? Variante 200 per chi? Se siamo a crescita zero perché persistere sulla via di consumo di suolo?
La città di Torino, come molte altre città europee, ha spinto molto sul binomio crescita-intervento urbano. L’idea è quella di inseguire un volàno, anche solo temporaneo, fatto di occupazione, oneri di urbanizzazione, attrazione di residenti e turisti, soluzione di problemi urbani e sociali. In certi casi ha funzionato, soprattutto in condizioni economiche di crescita, anche ridotta, ma è evidente che in una condizione di deflazione, con crescita negativa e consumi in picchiata, il rischio è quello di iniziare delle opere per non terminarle, aumentare l’indebitamento e scaricare su giunte e generazioni future il peso di scelte sbagliate. La questione ambientale, poi, è sempre più urgente. Abbiamo bisogno di nuovi metri cubi di cemento, di infrastrutture per sostenerli, quando continuiamo ad avere immense quantità di alloggi vuoti ed edifici pubblici e privati abbandonati o sotto-utilizzati?


La rendita fondiaria sarà uno strumento di integrazione al salario per la nuova classe media?

Non vi è dubbio sul fatto che “essere una nazione di proprietari di casa” ha, per molti versi, salvato le famiglie italiane (che sono in larga misura proprietarie) dal rischio di perdere il proprio tetto in seguito alla crisi. Le esposizioni finanziarie delle famiglie italiane non sono, infatti, paragonabili a quelle americane o anche a quelle spagnole. Di conseguenza possedere la casa o sapere di poterci contare in futuro, è una risorsa molto importante, soprattutto per le classi medie. C’è però un “ma” molto importante. La trasmissione da una generazione all’altra della casa ha beneficiato i figli del boom economico, i cosiddetti “baby boomers”, ma non è detto che questi riescano sempre o, in tempo, a trasmetterla ai loro figli. Non è un caso infatti che molti esposti all’indebitamento creditizio per un mutuo fossero coppie giovani, dunque più fragili dei loro genitori se pensiamo al tipo di mercato del lavoro in cui galleggiano. L’altro “ma”, riguarda tutti coloro i quali la casa o non sono mai riusciti a comprarla, e penso alle classi popolari e, in particolare, a quei nuclei che erano ben tutelati in passato dall’edilizia popolare, o coloro i quali sono arrivati nel nostro paese come immigrati a partire dall’ultimo trentennio e che, per definizione, hanno redditi più bassi e non possono contare su alcuna eredità familiare (non qui in Italia, almeno). Ecco, classi popolari autoctone e classi popolari immigrate non potranno giovarsi della rendita fondiaria. E, a giudicare dall’aumento delle disuguaglianze in corso in tutto il pianeta, la loro posizione non potrà che peggiorare, a meno di un cambiamento di rotta che francamente non vedo.

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1 commento:

  1. Per la prima volta da quando vivo in Italia (32 anni), zona sta Rita ho visto una persona dormendo sotto i portici di Piazza Montanari ! non ho parole !

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