mercoledì 22 aprile 2015

Colapesce, la conta e le stelle marine

Cinque, sette, dodici. Ventitrè, ventotto, trentuno. Contava Colapesce.
Sessantanove, settanta, settantuno.
Corpi, di uomini e donne, belli, abbracciati  dal mare.
Un bimbo, una bimba, corpi.

Quattrocentoquattordici, quindici, sedici. Cola teneva il conto e ad ogni corpo gli correva un brivido d'angoscia lungo la spina di pesce. 

Contava Colapesce, contava e ogni volta che  perdeva il conto da capo e da capo ricominciava.

Sotto i mari del sud, nel Canal di Sicilia, Colapesce contava da sera fino a mattina.

Conosceva le ombre che fanno le barche quando leggere leggere scivolano sul pelo dell'acqua. Delle barche, poi, riconosceva  il rumore e si divertiva ad indovinare da dove venissero. Si domandava ogni volta quali vite contenessero, quali risa  e quali amori. Di giorno e di notte, Cola le vedeva passare e offuscare i fondali velando i raggi di sole o lunari. Giocava a rincorrerne le ombre e a seguirne la scia, a nascondersi nel buio proiettato negli abissi o a inventarne la rotta.
C'erano però, tra le altre, ombre diverse di barche piccole e pesanti. Di quelle Colapesce conosceva l'origine e la materia ma ne ignorava il destino. Erano, per lui, barche di speranza. E ogni volta che Cola  ne  vedeva una arrivare smetteva i giochi, invocava gli dei, Poseidone e tutti gli esseri del mare, perché accompagnassero quelle imbarcazioni oltre la soglia dell'acqua e le lasciassero approdare su terre, non felici, ma terre, protette, più sicure, asciutte terre.

Seicentocinquanta, seicentocinquantuno, seicentocinquantadue. Cola era forse l'unico essere al mondo a conoscer quelle cifre. Ogni volta che accadeva che quegli enormi cucchiai si rovesciassero nella fredda minestra del mare, Cola contava e teneva traccia del conto facendo dei segni sui sassi con vecchi gusci di  conchiglia.

Colapesce, lo sappiamo, aveva natura anche umana e di fronte a quello spettacolo tremendo e angosciante, non riusciva a restare indifferente. Sapeva bene di non avere potere, di non aver le forze per salvar quelle vite. Le vedeva lente lente scivolare, una pioggia di uomini che si abbatteva sui fondali. Cola era persona per metà e di fronte a quella pioggia provava rabbia immensa, rabbia fortissima. Portare il conto era il suo modo di render giustizia, tenere almeno traccia dell'accaduto, restituire ad ogni corpo un'ultima estrema forma di dignità. Che in mare almeno si sapesse quanta speranza s'era perduta!

Sapeva bene Colapesce che il mare è natura e non riusciva a prendersela coll'acqua. L'uomo tutti i giorni la sfida e combatte, tutti i giorni ferisce cieli, terra e foreste. La responsabilità di quella tragedia era, invece, tutta umana, dell'uomo povero di sentimenti e indifferente. Dell'uomo cattivo, degli stati, delle politiche e della misera guerra.

Erano, quelle, le uniche ombre di cui Cola conoscesse la provenienza. Sospendeva il gioco quando le vedeva, invocava gli dei e le belle Nereidi, che con perle e perline distraessero Scilla e Cariddi.

Salpavano, quei barconi traboccanti di vite, dalle coste libiche dritte in rotta verso l'Europa, terra migliore per chi navigava. Terra di tregua e non di tormento. Ma niente, l'Europa quelle vite non le voleva, le rifiutava, ne negava l'esistenza. Da qualche mese poi, anche l'Italia aveva smesso di sentire quel mare come nostro. Cola lo sapeva perché il traffico in mare s'era placato, perché ora c'erano  mezzi mercantili, pescherecci e guardacoste a pattugliare il mare, perché, ora, i soccorsi non si spingevano oltre le trenta miglia e sempre più spesso  accadeva che i barconi si rovesciassero, che la tragedia si consumasse e che la pioggia di corpi ricominciasse.

Migliaia di vite distese sui fondali marini che separano la costa africana da quella europea. Migliaia i corpi contati da Cola. Naufraghi a causa di tutti,  per via delle guerre che noi produciamo, per via delle armi che noi regaliamo, per via dei denari di cui siamo avari. A causa di tutti ma più di qualcuno: di chi per profitto farebbe di tutto, disposto a macchiarsi perfino di lutto! E del capitale che nessuna libertà produce ma solo profondissimo male!

I soccorsi erano lì quella notte d'aprile quando Cola vide rovesciarsi l'imbarcazione con dentro stivate centinaia di persone. Contava Cola e cantava quei numeri sotto l'ombra della grande inutilità del mercantile. E ad ogni vita un brivido e ad ogni brivido rabbia per quel potere che gli uomini avevano, potere di decidere della vita degli altri, di salvarla o toglierla per sempre la vita. Responsabili le politiche, i governi e l'Europa che induce il sud del mondo alla speranza, e sistematicamente poi  la nega e infine l'annega.

Questa storia è  molto triste, lo so e lo sa Colapesce ma non sempre ogni cosa allegra riesce.
Per poter raccontare delle storie più belle Colapesce affidò la sua rabbia alle stelle. “Stelle del mare -disse- custodite queste anime e imparatele ad amare!” Ed ora là sotto, sul fondo marino, quei corpi riposano senza più destino. Più in su, sulla terra è la solita immondizia l'uomo, la guerra e nessuna giustizia. Ma almeno là in fondo, tra le stelle e i coralli, quelle anime splendono come cristalli.
Chiara Vesce

2 commenti:

  1. E' necessaria grande sensibilità per raccontare queste tristi storie uscendo dai cliché contenutistici e stilistici usuali. Questo bel racconto ce l'ha. Complimenti a chi l'ha scritto.

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  2. Chi l'ha scritto arrossisce, incassa e ringrazia.

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