Alla vigilia delle elezioni vi proponiamo questo bellissimo articolo del maestro Luca Rastello sulla nostra città. Nel 2003 Rastello riuscì a fotografare perfettamente Torino nel bel mezzo delle sue "trasformazioni". Un articolo che all'epoca diede molto fastidio, forse perchè entrava dritto nel cuore della nostra città. Sono passati oltre dieci anni: che cosa è successo a Torino? Vogliamo leggerlo nuovamente insieme a voi come spunto di riflessione a poche ore dal voto.
Il Buio oltre la Fiat, di Luca Rastello
(8 febbraio 2003, D Repubblica)
La città adesso è anche così: gente che salta i muri appena cala il buio. Accade sulle lunghe strade che lasciano il centro verso il nord, costeggiate dai muri in mattone scuro delle vecchie Ferriere, centinaia di metri senza un portone o una finestra, fermate d’autobus deserte dai tempi in cui gli orari della produzione fordista rovesciavano a intervalli regolari mareggiate di gente frettolosa sui marciapiedi. Ora, dopo il tramonto, li vedi: si fanno trampolino di vecchie cassette di legno per la frutta e scavalcano rapidi il muro, dove la cima appare smangiata dal tempo, poi si infilano nella notte di Torino a vivere le loro vite indecifrabili.
Torino vista da Paola - un omaggio di Sistema Torino al maestro Luca Rastello |
La notte è quasi una novità a Torino, prima non c’era. Una sera di anni fa l’italianista Stefano Jacomuzzi, ospite di Gianni Agnelli, notò dalla collina le grandi chiazze di buio che si allargavano sotto il suo sguardo: “Sono le nove e la città sembra già addormentata”, osservò. “Lascia che riposino”, rispose paterno l’Avvocato.
Ora anche lui riposa. Erano suoi quei grandi viali paralleli alle linee di montaggio e, parallele ai viali, quelle traiettorie rettilinee di vite operaie o impiegatizie, definite una volta per tutte dal primo giorno allo stabilimento e dal regalo dell’orologio che li qualificava “Anziano Fiat” – un titolo che tanti si portano ancora nel necrologio sulla Stampa. “Avevamo tutti la stessa sensazione, davanti all'officina: ti sentivi inghiottito, l’aria se ne andava dai polmoni, quel giorno lì ti sembrava proprio di morire”, racconta Vincenzo Mare, arrivato ragazzo dalla Lucania, nei ’60.
La Torino novecentesca è vissuta come un fascio di rette parallele. Con due vocazioni, antitetiche: una notturna, streghesca e ctonia, l’ala del grifone disegnata su certe carte rinascimentali d’Europa, l’altra ala su Lione e la testa su Praga a indicare i luoghi privilegiati dell’Alchimia, le città dai quattro fiumi, quattro come gli elementi per la Grande Opera; l’altra diurna, operaia, fatta di orgoglio di mestiere, coscienza robusta, sempre creativa e spesso conflittuale di coloro che prendevano parte all'altra grande opera, quella dell’auto.
Le cose sono cambiate negli anni ‘90, con l’iniziativa di un assessore disinvolto che inventò la movida torinese sulla riva del Po. Sono gli anni di quella che il sociologo Marco Revelli chiama “la globalizzazione stracciona della Fiat”, il decentramento delle produzioni con esperimenti fallimentari come Cordoba in Argentina, e le dimissioni in massa. Oggi l’azienda annuncia poco più di 8 mila esuberi e molti si stupiscono che la capitale italiana della rivolta operaia novecentesca non insorga, ma se ne stia in coda al Lingotto per “L’ultimo saluto all'Avvocato”.
Il fatto è che negli ultimi 12 anni, mentre scopriva la movida, la città ha perso 110 mila posti di lavoro, un’emorragia silenziosa e fatale, accompagnata dall'onda epidemica dei suicidi tra i cassintegrati dell’80 che non riuscivano a rientrare nel mondo del lavoro. Torino si è ridimensionata e i fuoriusciti dal lavoro fordista si sono sparpagliati nell’hinterland, in parte a costituire il triste arredo urbano dei prepensionati, pochi tornati al sud, qualcuno negli interstizi del commercio a piccola distribuzione, tanti riciclati al lavoro per il ciclo Fiat da “esternalizzati”, manodopera del terzo millennio, senza garanzie, impiegata nell'indotto e vulnerabile ai micidiali rimbalzi della crisi. “E’ una strategia dell’abbandono monitorata in ogni suo passaggio”, dice Revelli che però per la città non è pessimista: “Torino è risorta tante volte: dopo la restaurazione si reinventò come capitale del processo di unificazione. Caduta nel 1864, rinacque grazie ai nuclei nascenti artigiani e meccanici; è risorta dalla guerra, ha retto l’impatto dell’immigrazione di massa”.
Ma ora c’è una differenza: “Aveva sempre in sé una scintilla di rivolta, una coscienza critica, la borghesia radicale del risorgimento, il movimento operaio. Con la sconfitta operaia dell’80, la liquidazione delle minoranze radicali è stata totale, espulsi e umiliati i ribelli, colpevolizzata la rivolta, rimossa la soggettività del lavoro”. L’azienda ha voluto stravincere e ha perso le sue risorse migliori. Come quegli operai che disegnavano un cerchio di gesso intorno alla macchina da lavoro e incrociavano le braccia se un caposquadra entrava nel cerchio, a difesa di quello che oggi si chiamerebbe know how.
Passata la commozione collettiva del lungo addio a Gianni Agnelli, oggi a Torino c’è la consegna del sorriso e l’appello ad andare avanti assieme, con un’ombra retorica. Il volano della nuova vita dovrebbero essere le olimpiadi invernali del 2006. Resta memorabile il commento della scrittrice indiana Arundathi Roy portata a vedere le infrastrutture in costruzione: “Really you destroy your environment for skying two weeks?”. Per ora il grande rilancio ingolfa la città di cantieri che inchiodano gli automobilisti a un rosario quotidiano di bestemmie. “Più testa meno coda”, ammonisce un castoro petulante scelto come mascotte dal Comune. Raccomanda il car sharing, cioè il rimedio ideale per la città fordista dove era facile che quattro operai della stessa fabbrica vivessero nello stesso palazzo e potessero usare una sola auto; oggi i futuri e solitari utenti del paradiso terziario si immaginano percorsi tortuosi per recuperare quattro persone e portarle in quattro posti di lavoro diversi dribblando un traffico infernale. Tutt'al più se la prendono con il castoro, mentre nessuno ha chiesto la testa dell’assessore alla viabilità: la città è conservatrice, ama le sue istituzioni comunque. “Preferisce”, secondo Livio Diamanti, “tenersi la nobiltà industriale decaduta, piuttosto che rispecchiarsi nel miracoloso nordest o nella Milano mediatica e borsistica”. Intanto la barista del Bar Sport di via Giachino (l’ultimo con questo nome) è incinta: “Ma vado a partorire a Cirié, sa, un piccolo ospedale: è come comprare la macchina in una concessionaria di provincia, dove ti seguono, invece che in un salone Fiat dove nessuno ti guarda”. Il parto, la concessionaria come metafora: la città ha i suoi lapsus, se Torino avesse avuto il suo Gaber ne sarebbe uscita una grande canzone.
Eppure c’è poco da scherzare: non c’è solo la Fiat, né gli Agnelli. Qui chiude tutto: la Sai Fondiaria che si trasferisce a Firenze; la Savigliano, gloriosa metallurgica che ha lavorato per quasi due secoli, dalle ferrovie all'indotto auto; la Utet, prima casa editrice nella storia d’Italia (166 esuberi su 400 posti); l’orchestra della Rai; persino, nonostante il buon successo, la sola telenovela che si girava in città, Cuori rubati, (aspettate a ridere: significa 200 fra protagonisti, registi, tecnici e redattori e un indotto di 350 attori locali, 500 comparse, 350 locations pagate, 27 case in affitto, 3000 giornate alberghiere scomparse). E gli operai? Nonostante i 110 mila posti perduti, Torino rimane la più grande città operaia d’Europa. Ma il lessico cambia: gli uomini del cerchio di gesso diventano “risorse umane”, e poi “esuberi”, e la città scorre loro di fianco, assorta in altri pensieri come nell'incubo di Primo Levi: “intorno a me tutti parlano delle loro cose come se io non ci fossi”.
Alle officine Savigliano incontro l’architetto Natalia Rosso, incaricata della ristrutturazione dell’area che sarà inserita nei villaggi per le Olimpiadi del 2006: “Noi arriviamo come i personaggi di Amici miei: “qui tutto giù!” e gli operai che lavorano attaccati alle macchine ci guardano incuriositi, senza fastidio. Ho paura che a loro nessuno abbia detto niente”. Settimane fa, in una media fabbrica simile, uno ha messo in tasca la lettera di cassa integrazione, si è girato una corda intorno al collo, l’ha attaccata a un carro ponte e l’ha messo in moto.
Metamorfosi continue. Oggi la città vera non è quella dei dibattiti sul futuro della Fiat. E’ fatta invece di ex eroi della città fordista, di irregolari, di quella nuova borghesia imprenditoriale nera e nordafricana che rende vivo il quartiere di San Salvario, del lumpenproletariat extraeuropeo di Porta Palazzo, della legione dei saltatori di muri rumeni. Questo ti dice chi conosce bene la strada. Come Susanna Ronconi che vive sospesa fra due mondi, in una casa a due arie, una finestra sul suk di Porta Palazzo e l’altra sull’elegante “quadrato romano”. Ha diretto la prima unità di strada di intervento sulle tossicodipendenze proprio a Porta Palazzo e ora ha fondato un’associazione per formare operatori sociali alla partecipazione democratica: “Qui la maggior parte dei processi di partecipazione sono creati dall'alto, forme di ingegneria sociale che scendono dal Municipio. Si creano “tavoli”, consulte, commissioni dove siede chi ha già voce presso le istituzioni, ceto medio, associazioni storiche e potenti che pretendono di rappresentare chi voce non ha. Restano fuori migliaia di nuovi poveri, ansiogeni, adatti tutta più a incarnare il nemico sociale indispensabile per un modello di città che tende al frazionamento e alle barricate. Ci sono tante Torino diversificate, ma anche barricate l’una verso l’altra. Non è una cosa nuova, ma lo è per questa città che ha vissuto conflitti radicali ma sempre iscritti dentro un’unica descrizione della realtà. Ora è difficile anche chiamarli conflitti, li rintracci decodificando la domanda sociale che viene dalla povertà”.
C’è un’immagine forte che spiega quello che dice Susanna: l’ex sindaco Castellani che si richiesta del cittadino-commerciante fece piombare i turet, le fontanine di strada, semplicemente perché venivano usati, vi si addensava gente. L’allarme cresce per linee sue, eppure il commissariato di Ps di Porta Palazzo segnala che da due anni c’è un drastico calo di ogni tipo di reati. Torino è storicamente anche la città della solidarietà, da Don Bosco all'Arsenale della pace e del gruppo Abele, “il cosiddetto “terzo settore”, continua Susanna, “che ora tende a sostituire le tecniche alla politica, a fare dell’esclusione sociale un problema da affidare a un'équipe di esperti”. E’ così che si perde il contatto con intere comunità destinate a creare mondi separati come cités marsigliesi, qualcosa che Torino potrebbe scoprire non appena scatteranno le assegnazioni di case popolari agli immigrati. Potrebbe essere proprio questo il destino dei nuovi quartieri di palazzoni destinati ad alloggi che stanno nascendo intorno agli impianti del sogno olimpico. Li precede un piano regolatore invecchiato prima di prendere il via. Ci finiranno anche molti ex dipendenti Fiat: “La crisi dell’azienda si risolverà”, mi dice uno dei più importanti costruttori di Torino, “ma è un fatto che già oggi ci sono banche che non concedono mutui ai dipendenti Fiat”.
Hanno due anime, i torinesi: una è quella di Gianduja, concorde con le istituzioni che hanno negato la crisi finché hanno potuto all'insegna del piemontesissimo esageruma nen. All'altra piace gingillarsi con la fame alchemica della città, di cui fa parte l’antica arte di interpretare i segni: nella primavera del 1980 un terremoto scosse Torino, sparse paura e danneggiò un solo edificio, il museo dell’automobile. Pochi mesi dopo la Fiat annunciò 22 mila esuberi e pose fine alla storia del movimento operaio italiano. Il 18 febbraio scorso, pochi mesi prima dell’annuncio della nuova crisi dell’azienda madre, fu annullato all'improvviso il 69mo Salone Internazionale dell’auto: un altro terremoto, un trauma per i torinesi maschi che nella visita primaverile al Salone avevano il rito di iniziazione adolescenziale. Quel giorno lì l’anima esoterica ha prevalso, e tanti in città si sono detti fra sé e sé: aj suma, “ci siamo”
Questo non è giornalismo, è letteratura.
RispondiEliminaMp
Quante previsioni sbagliate.
RispondiEliminaQuante sciocchezze, quanti aneddoti mai avvenuti e quante mezze verità utili a costruire la narrazione voluta. Quanto giornalismo, insomma.
Ma anche quanto coraggio, quanta verità nel parlare degli ultimi, dei disperati, dei sommersi del post-fordismo.
E viene la voglia di prendere carta e penna per contestare ogni riga... ah già... non si può più
Dopo aver letto questo articolo, credo di aver vissuto in un'altra città....
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