Al ballottaggio per l’elezione a Sindaco hanno votato 290.632, ovvero il 42,14% dei cittadini aventi diritto: un dato che fa spavento, solo parzialmente attenuato dal “mal comune” a tutte le città italiane andate ai seggi in questo weekend di ballottaggi. Una condizione comune tra Torino e gli altri capoluoghi in numerosi tratti: in primis, un astensionismo che ha favorito i candidati del centro-sinistra, più forti nelle zone centrali o semi-periferiche delle città che hanno visto comunque una percentuale di votanti superiore al 50%. Da contraltare vi sono state le periferie che sono rimaste a casa, potenziali terra di conquista delle destre pronte a raccogliere la delusione nei confronti dell’Amministrazione Appendino e della sua strategia "suicida", che ha portato la Giunta pentastellata a tradire più e più volte le grandi storie d'amore tessute in campagna elettorale.
La realtà è che la crisi e l’allontanamento da una politica che non risolve i problemi delle periferie è molto più strutturale e profonda: sono questioni talmente lontane dal focus mediatico mainstream che ormai non vengono quasi più citate dai candidati Sindaco nei dibattiti elettorali.
La povertà endemica, i trasporti pubblici che non arrivano in alcuni punti della città, lo sfalcio dell’erba nei parchetti pubblici di Barca-Bertolla o l’assenza di servizi a Lucento non sono trend topic di un dibattito in cui si preferisce magnificare le Finali ATP, il decoro del centro cittadino e l’attrazione di eventi e investimenti produttivi che sembrano ormai solo pia illusione per abitanti delle periferie che in qualsiasi intervista o reportage dai fronti più lontani rispondono semplicemente “LAVORO!”.
E così il PD torinese può trionfare e magnificare la lunga marcia elettorale che ha visto il centro-sinistra recuperare lo svantaggio previsto in tutti i principali sondaggi: sembra in realtà che sia stato Damilano a perdere voti per strada, arrivando al secondo turno con circa diecimila voti in meno rispetto al primo. Il confronto con il ballottaggio 2016 è impietoso: Lo Russo vincente nel 2021 ha a malapena 117 voti in più del Fassino sonoramente sconfitto da Appendino cinque anni prima. Sono 169.000 voti che sembrano essere lo zoccolo duro inscalfibile del centro-sinistra, lontano parente dei 255.242 voti per Fassino dieci anni fa: certo, nella politica attuale dieci anni sono un’era geologica, ma resta agli atti che sono evaporati il 30% dei voti collocati vagamente nell’area di sinistra cittadina.Fatte le doverose premesse sull’astensionismo, la democrazia rappresentativa ci regala ora un nuovo vecchio governo del centro-sinistra, con il neo-Sindaco Lo Russo che dichiara di voler ristabilire il Sistema Torino: perché, con la Giunta Appendino era stato per caso scalzato dalle macchine del potere?
Dopo l’improvvisazione al potere e le figure maldestre di cinque anni pentastellati, torneremo alla cara vecchia normalità di un Sistema Torino fieramente rappresentato dalla sua parte politica, e una comunicazione mainstream pronta a elogiare la competenza e la raffinatezza di una classe rappresentativa pronta ad amministrare l’esistente senza smuovere i meccanismi di potere consolidati. La cara vecchia Compagnia di San Paolo continuerà a gestire il welfare della città (sia come finanziamenti che come direzione dell’Assessorato), la cultura e il turismo saranno le parole chiave del rilancio cittadino (da quanti anni ormai?), il cappio del debito pubblico cittadino rimarrà lì, intoccabile, a ricordare chi tiene le redini economiche-finanziare di Torino.
La Giunta Lo Russo non brillerà certo per originalità: avrà la specificità tutta torinese di un paio di Assessorati in quota REAR, al fianco dei quali vi sarà una rappresentanza per ogni corrente interna del PD, e qualche incarico (marginale?) per i panda della sinistra progressista cittadina.
Ci auguriamo di sbagliarci, ma per ora non c’è nulla di nuovo sul fronte occidentale.
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