mercoledì 12 novembre 2014

Artissima, Paratissima, pecorissima. Ma quanto rendono le croste?



Bene, e anche questa è andata, è finita la baraonda delle arti contemporanee.
Come ogni anno, periodicamente si rinnova il miracolo dei torinesi che accorrono in massa al Grande Evento del Momento, e si scoprono improvvisamente appassionati di arte contemporanea ("ti è piaciuto?" "Mah, non è che ci capisca molto però volevo proprio andarci..."), conoscitori di jazz (ieri sono andato al concerto in piazza, c'era uno che non mi ricordo il nome, bello eh, anche se dopo un po'...), intenditori di sport per vecchietti, maratoneti, fini degustatori di vini e attenti consumatori di food sostenibile.
Salvo il fatto di tornare il giorno dopo a riempire il solito centro commerciale ed essere impermeabili a qualsiasi sollecitazione eno-gastro-cultural-artistica che non preveda almeno la difficoltà del parcheggio, la calca alla cassa, un biglietto salato, e un rumore di fondo degno di attenzione.
Non entro oltre nel merito del “dove caspita siete quando si organizza una mostra che non fa parte del Grande Circo del Pensiero Unico?”
Voglio invece concentrarmi sul dopo kermesse, in particolare sulla sua santificazione come indispensabile volano economico e generatore di Grandi Numeri.
Cinquantamila presenze ad Artissima, ventimila visitatori domenica che hanno messo in difficoltà i volontari (ah, i volontari, altra bella storia, i volontari) dell'organizzazione di Paratissima.
Più 30% visitatori  ad Artissima, “mai così colti” (tutti dati di fonte La Stampa) che hanno generato un volume d'affari di 10 milioni di euro.
Bene, analizziamo i numeri: detti così fanno impressione al pensionato della bocciofila ("mi capisu nen d'l arte, ma va bin parei, è tutto guadagno"), ma è una impostazione giornalistica, se mi permettete un po', come suol dirsi, da cioccolatai (con tutto il rispetto per il nostro ottimo cioccolato. Ah, già, c'è anche la settimana del cioccolato, dimenticavo. Sappiamo tutti riconoscere la differenza tra una varietà e l'altra del cacao, compreso quello mangiato e poi espulso dalle scimmiette. Cattelan ne sarebbe orgoglioso).

Lo sceicco che va da Fendi o altri negozi del lusso in centro e si compra la borsa di coccodrillo da 40.000 euro, non sta lasciando quarantamila euro in città: li sta dando a Fendi, alla casa madre, per un prodotto realizzato in Cina: a Torino, al massimo, resta qualche unità percentuale del prezzo pagato come guadagno del gestore del punto in franchising e i 60 euro della giornata della commessa. Sia che venda la borsa da 40.000 euro, sia che venda un paio di jeans da 30. Quello è, non resta qui nemmeno l'IVA sul venduto.
Inoltre, non si può spacciare come grande risultato economico un volume d'affari generato all'interno dei poli del lusso, quando questo non ha ricadute sul resto della città.
Quanti collezionisti hanno fatto la spesa ad Artissima? 200?500? 1000? e gli altri 49.000 visitatori? 
10 milioni di euro di ricaduta economica, gran parte fatti da 1000 collezionisti o emissari di musei pubblici, sono 10.000 euro a testa.
150 euro a notte + 60 euro a pasto sono circa 300 euro a persona al giorno, aggiungendo l'amante, sono 600 euro per 3 giorni  di trasferta = 2000 euro mettendoci dentro anche il gelato.
Restano 8.000 euro a inviato per le spese artistiche di un collezionista straniero in una galleria straniera di un artista straniero presenti ad artissima. Nemmeno un euro di quelli è rimasto in città. Nemmeno l'IVA.  

E' questo un volano economico? A me sembra una normalissima fiera di settore, che con 8.000 euro medi di spesa a testa per addetto qualificato, è anche abbastanza provinciale. Alle fiere dell'edilizia i muratori spendono di più per betoniere, muletti e miniescavatori.
E se questa è una normalissima fiera di settore, perchè “vestirla” come il più importante evento artistico dell'anno, abbindolando, è il caso di dirlo, gli altri 49.000 visitatori, e facendo per di più pagare un salato biglietto d'ingresso?

Col risultato di far uscire dalla visita un pubblico già di per sé non preparato, che non viene formato all'interno, visto come elemento di disturbo, perchè tanto non è lì per comprare, che ne esce perplesso e che quando si tratterà di poter vedere mostre indipendenti di artisti locali dirà che è roba che non si capisce, che quelli sono matti o drogati e che è meglio fare la coda per vedere le opere minori di Degas, alla GAM, ammonticchiate come da un rigattiere, che perlomeno si capisce che un vaso di fiori dipinto è un vaso di fiori.

L'arte, proposta in questa maniera, con toni grandiosi, ma pur sempre declinata come elemento elitario, irraggiungibile, oggetto del desiderio o anche solo di un mondo lontano dal nostro quotidiano, non fa altro che generare un allontanamento da parte del pubblico, un suo progressivo imbarbarimento culturale o, al più, il desiderio di scimmiottarla, comprando le croste industriali cinesi della Grande Distribuzione, a 40 euro.
Un altro sistema dell'arte è possibile, ma soprattutto esiste un altro modo di creare cultura e desiderio di conoscenza nelle persone che popolano questo territorio, con minori risorse, magari, ma in maniera costruttiva, condivisa, sostenibile, accessibile a tutti. 

Di Paratissima, dell'uso “sociale” della creatività cittadina, e della possibilità di farsi ramazzare gratis, anzi a fronte del pagamento di una quota di partecipazione, location abbandonate e vandalizzate per il resto dell'anno, magari lo affronterò un'altra volta.
Della mostra di Cattelan invece non ne voglio parlare. 
Consideratemi morto.
Se voi non lo siete, seguite la timetable che ha dettato con la sua mostra (tanto l'inglese lo conosciamo tutti, no?)
Daniele D'Antonio





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