Secondo i dati del Rapporto Rota 2014, la speranza di vita nelle periferie torinesi si sta accorciando. Si vive meno, e male, a pochi passi dal centro invaso da turisti e grandi eventi: come è stato possibile? E cosa proponete per invertire la tendenza?
Diciamo che la necessità di affrancarsi dal paradigma di sviluppo industriale per adottarne uno improntato sulla valorizzazione dell’offerta culturale e turistica cittadina, e quindi sull'organizzazione di manifestazioni artistiche e sportive per attirare risorse e generare indotto, è stato il grande obiettivo conclamato non solo dell’ultima amministrazione Fassino ma, più in generale, dell’intero ventennio in cui il centro-sinistra ha governato Torino. Credo che a più di 20 anni dall'inizio di quel processo di ricerca di una nuova vocazione per la città sia giunta l’ora di tirare le somme, di decretare se quella
sfida è stata vinta. Ecco, se dalle belle piazze e dai maestosi portici del centro storico che, di volta in volta, ospitano la manifestazione di turno volgiamo lo sguardo alle periferie verrebbe da dire di no, un no secco. Questa classe amministrativa non è stata all'altezza della sfida, di certo ambiziosa ma necessaria, che si era posta.
sfida è stata vinta. Ecco, se dalle belle piazze e dai maestosi portici del centro storico che, di volta in volta, ospitano la manifestazione di turno volgiamo lo sguardo alle periferie verrebbe da dire di no, un no secco. Questa classe amministrativa non è stata all'altezza della sfida, di certo ambiziosa ma necessaria, che si era posta.
Questo perché quello che sarebbe dovuto essere un processo di trasformazione della città, a noi pare, si sia in realtà tradotto in un processo di concentrazione. Una concentrazione in un duplice ma speculare verso. Da un lato, concentrazione delle risorse disponibili nella sola area centrale della città, dall'altro, concentrazione delle decisioni sullo sviluppo e sulla progettazione urbana in alcuni, pochi (ma noti), soggetti.
Invertire questa tendenza alla concentrazione significa due cose: una redistribuzione geografica delle risorse sull'intera città, e non solo su una parte di essa, e un’apertura del processo decisionale all'intera cittadinanza. Gli interlocutori privilegiati di questa redistribuzione e di questa apertura non saranno le fondazioni e le banche ma gli abitanti di quelle periferie che realmente vivono il disagio quotidiano dell’abitare in una città che ancora ha difficoltà ad inquadrare la sua vocazione e che quindi, più di chiunque altro, sarebbero disposti a cercare delle soluzioni.
Incrociando i dati dell’Osservatorio Caritas 2015 con il Rapporto Rota, emerge l’immagine di una periferia in cui i servizi pubblici diminuiscono, gli utenti dei servizi sociali aumentano e la scuola riproduce fedelmente le differenze di classe. Quali risposte intendete mettere in atto? Tra un modello di regime urbano pro-welfare ed uno neo-liberista, quale pensate di adottare per il futuro?
Su tutti il dato che non può lasciare indifferenti sono le oltre 90.000 persone che vivono in condizioni di povertà assoluta nell'area metropolitana di Torino. Novantamila persone che non riescono ad accedere ai servizi essenziali. 90.000 persone... sono tantissime!
Ecco, noi riteniamo siano completamente mancati meccanismi di compensazione e misure strutturali di sostegno alle periferie, specie in un contesto di crisi dove il tasso di disoccupazione in quartieri come Barriera di Milano, Borgo Vittoria, Valdocco, Le Vallette, Mirafiori, la Falchera è più del doppio rispetto a quello di un Centro o di una Crocetta. E questa analisi induce a pensare che il persistere con un regime urbano sotto il segno di un neoliberalismo trionfante, perché questa è la direzione assunta nei tentativi di mercatizzazione e privatizzazione dei servizi collettivi cittadini, non possa che assomigliare sempre più al peggiore degli scenari, risolvendosi nel lungo periodo in tensioni sociali pronte ad esplodere. È chiaro che in un contesto di questo genere il tema del reperimento delle risorse da investire per contrastare la marginalità sociale diventa stringente. Da un lato sarà necessario incidere a livello nazionale, nel ruolo che Torino ha come capofila nell’ANCI, per una revisione della legislazione relativamente al Patto di Stabilità, dall'altro, a livello locale, si tratta di portare trasparenza nella gestione dei soldi pubblici affinché il tesoretto degli sprechi e degli investimenti dissennati in opere inutili venga liberato e destinato ai servizi.
Gli stranieri residenti in città sono concentrati in poche zone della periferia (soprattutto Borgata Monterosa, Aurora, Borgo Dora e Corso Vercelli) e sono colpiti dalla crisi e dal disagio della povertà in maniera drasticamente più forte. Quali politiche intendete attivare sul territorio per favorire una integrazione economica e sociale reale dei nuovi arrivati?
In realtà il disagio economico-sociale vissuto dagli stranieri che abitano la nostra città altro non è che l’appendice della più generale polarizzazione urbana che si è creata. Mi spiego, noi abbiamo un mercato del lavoro a Torino, ma questo riguarda anche altre città, che ha intentato la strada della terziarizzazione senza che a questa però corrispondesse una reale tutela del lavoro. Quindi da un lato si è verificata una contrazione della domanda dei lavoratori a medio salario, dall'altro, la precarietà è diventata un realtà di fatto. Per cui alla speculare crescita della popolazione relativamente benestante, che per la sua quotidianità richiede alcuni servizi, c’è stato un proliferarsi di attività economiche e lavori marginali che sono però diventati indispensabili. Un grosso calderone di lavori sottopagati e spesso degradanti: dalle colf, alle badanti, ai venditori ambulanti di panini o mercanzie varie, ai fattorini, ai nuovi lavoratori della sharing economy, ai camerieri, agli addetti ai call center, ai custodi, e via dicendo. Questo tipo di mercato del lavoro, oltre ad essere precario, è diventato anche transnazionale: si è cioè aperto agli stranieri, che a Torino sono circa 138.000. Quindi il problema delle nuove povertà, a mio giudizio, riguarda tanto i cittadini italiani quanto gli stranieri. Io credo che se c’è un disagio più forte per gli stranieri sia dovuto, oltre che ovviamente alla necessità di abituarsi ad un nuovo contesto, al fatto che a differenza degli italiani sono privi di quello che è l’unica vera forma di welfare nel nostro paese: il supporto economico della famiglia. Perché nemmeno gli italiani hanno il welfare di stato ormai, penso sia chiaro. Per questo credo sia necessario incentivare il più possibile il supporto delle reti etniche sul territorio, in modo che queste possano fare da canale e da rete ai servizi di supporto che il Comune offre, servizi che bisogna difendere e valorizzare per tutte le persone che fanno parte di questa Torino, che per noi deve essere una comunità di persone solidali. O questo o l’alternativa sono la criminalità, le occupazioni abusive (si guardi alle palazzine ex Moi) e l’integrazione come business di affaristi senza scrupoli.
In ogni caso, ripeto, senza maggiori risorse dal governo centrale ed europeo non c’è alcuna possibilità di risolvere un problema così vasto.
Si parla spesso di rinascita, anche culturale, delle periferie: che cosa fareste voi “lontano dal centro” in questo weekend? Casa del quartiere, centro commerciale aperto la domenica o Yoga al Museo Ettore Fico?
Una “domenica jazz” in piazza Stampalia. Voi che dite? Qualunque cosa purché non si sia costretti a recarsi sempre in centro. L’idea della Torino multicentrica è proprio questa: evitare che siano le periferie a spostarsi verso il centro, ma spostare il centro verso le periferie. Spostare fisicamente il lavoro, e il denaro, dal centro verso l’esterno. L’obiettivo sarà quello di creare dei momenti, frequenti e non una tantum, di aggregazione culturale e sociale nei diversi quartieri della città. Forme di intrattenimento che richiamino una nuova forma di turismo fuori dai circuiti tradizionali, per rendere l’immagine di una periferia più viva e più sicura, ma soprattutto per attuare una redistribuzione geografica delle risorse e del denaro che sia in grado di bilanciare la sola emancipazione del centro storico. La domenica pomeriggio il caffè o il gelato lo ordineremo nei bar di Barriera, delle Vallette, di Borgata Vittoria o della Falchera e non solo in Via Roma o Piazza Vittorio! Torino è potenzialmente tutta bella. Oppure esistono due Torino? Una aulica e una da nascondere?
Torino è la città con record di sfratti (in stragrande maggioranza per morosità) ed alto numero di case sfitte. Il movimento per l’ abitare è “tragicamente forte” in città: a Barcellona Ada Colau è diventata Sindaca partendo da quell’esperienza, a Torino come penserete di relazionarvi con chi si occupa attivamente di disagio abitativo?
Penso che sia necessario un momento di sincerità, dato l’argomento. Se non viene spezzato il patto di sostenibilità, se non viene spezzata la gabbia delle regole europee, non si potranno che prendere provvedimenti tampone. Una maggioranza a 5 stelle lavorerebbe su due fronti: uno locale e uno nazionale. In città, è necessario reperire fondi e collaborare fattivamente con il movimento per l’abitare. Bisogna aprire dei tavoli tra tutte le realtà esistenti (coinvolgendo anche le banche, i grandi proprietari e i costruttori) e prevedere dei percorsi con procedure di evidenza pubblica di autorecupero e autocostruzione. Ma la vera partita è a Roma: Torino è capofila Anci, dobbiamo farci sentire. Non possiamo accettare tutto quello che ci impone Renzi, che a sua volte prende ordini dalla BCE. Dobbiamo compiere atti di rottura politica e finanziaria. Paradossalmente anche l’attuale sindaco pensa questo: nel 2012 ruppe il patto di stabilità e lo definì “stupido”. La città fu massacrata con ulteriori multe. La soluzione trovata? Vendere tutto. Ma noi vogliamo fare gli interessi dei torinesi, non mettere all'asta la Cavallerizza Reale oppure non dare una casa agli sfrattati. Abbiamo 10.000 richieste di case popolari all'anno a fronte di appena 500 abitazioni consegnate da ATC. Questa situazione non è più sostenibile. Queste regole lasciano davvero poco spazio alla società e al bisogno.
L’esperienza dei forconi è stata una delle manifestazioni più potenti del disagio delle periferie pronte ad esplodere. Come valuta quell’ esperienza di popolo che ha messo a soqquadro la città per qualche giorno?
Il mio ricordo più vivo, lo dico senza offesa e con il massimo rispetto istituzionale, è il volto terrorizzato del Sindaco di Torino in quei giorni, da cui, io come semplice cittadina, capivo che non esisteva nessun tipo di controllo della situazione. Ci siamo rifugiati dentro un’analisi semplice: erano i fascisti. E quindi? E’ meno preoccupante? Non se ne è più parlato, non sono state fatte analisi serie successive, nessuno in realtà sa chi fosse quella gente. Io ricordo i negozianti del mio quartiere terrorizzati. E’ normale che non se ne parli più? Chi ha scritto qualcosa di serio in merito a Torino? Gallino e Revelli, voi di Sistema Torino: basta. Io quell'esplosione di collera, quella follia stracciona, la metto in relazione con alcuni indicatori delle città: le periferie con il maggior tassi di disoccupazione del nord Italia, la fascia nord dove l’aspettativa di vita media si accorcia, l’abbandono scolastico. Ma senza una politica seria, una politica che renda Torino un luogo dove si fanno gli interessi dei torinesi, e in particolare di chi sta facendo molta fatica, quella collera fascista (ma può essere questa una consolazione, mi domando) non farà che peggiorare. Il prossimo consiglio comunale dovrà lavorare molto e bene: rompere il patto di stabilità e tagliare gli sprechi, solo così si possono avere i soldi. Perché è solo una questione di risorse, da controllare e da redistribuire sul territorio.
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